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Il mondo di Geremia, nell'ottica morale di Paolo Sorrentino


Geremia, l'avido strozzino del film "L'Amico di Famiglia".


Il mondo di Geremia, nell'ottica morale di Paolo Sorrentino
"Geremia" interpretato da Giacomo Rizzo
Paolo Sorrentino è un regista autenticamente morale. Posizione non facile. Sorrentino è morale non nel senso di 'moralista', ma, appunto, di morale. Ciò significa rigido, intransigente, severo. Piccola aggiunta: regista morale, capace di sprofondare il suo cinema nel pessimismo più nero e di farlo risorgere. Un cinema votato alla speranza? Sì, ma solo in coda. La moralità nasce da un'intenzione precisa: quella di smascherare le cose, indagando a fondo la realtà e rifuggendo da comode prese di posizione. "L'Amico di Famiglia" si nega a morali consolatorie e a strizzate d'occhio di ogni tipo. E' sporco e cattivo come il suo Geremia, (interpretato dall'attore teatrale Giacomo Rizzo) scostante come tutti gli altri protagonisti, cinico come il mondo che evoca.
Gli abitanti del microcosmo di Sorrentino non sono adulti, ma bambini cresciuti male. Senza punti di riferimento, senza appigli, senza amore, probabilmente. Al pari de "Le conseguenze dell'amore", "L'Amico di Famiglia" è una riflessione formidabile sull'innocenza. Non su quella perduta, ma su quella che non c'è mai stata.
Geremia è un dannato. Glielo si legge chiaro in volto sin dalle prime sequenze. Demone confinato nella periferia della terra a peccare, senza possibilità di salvezza, senza redenzione possibile. Cos'è rimasto dei rapporti umani, dell'affetto, della solidarietà? Nulla. L'unica divinità rispettata e ossequiata in tutte le sue forme è rappresentata dal denaro. Che non si limita a corrompere e a deviare, ma che inquina le strette di mano, che pervade gli sguardi, che terremota ogni buona intenzione. Le banconote contate sino all'ultimo spicciolo ne "Le conseguenze dell'amore" si sono trasformate qui in contante liquido e astratto, annidato negli occhi senza luce di Geremia, nelle pose folli del neocowboy Gino e nell'abito da sposa oscenamente bianco di Rossana.
Racconta Sorrentino che l'idea del film gli venne quando in Siberia ebbe modo di notare due anziani dall'aria malata e trasandata. Sembravano marito e moglie, mentre erano madre e figlio. L'uno geloso dell'altra, entrambi accomunati da un'idea morbosa d'amore che sfocia in violenza dell'anima.
"L'Amico di Famiglia" la dice lunga già dal titolo. Perché in realtà nel film non ci sono amici e non c'è famiglia. Ma caricature parodiche e mostruose dell'uomo e della donna, scarabocchi inaciditi di atti che deformano l'uomo, dis/umanizzandolo. A Cannes Sorrentino ha presentato una versione del film che ha poi ritoccato in alcune parti. Il finale, specialmente. Asciugato e dilatato ancora di più nel suo potenziale 'distruttivo'. Perché quegli esili barlumi di luce intravisti nel racconto vengono improvvisamente meno. E Geremia rimane un mostro, certo, ma le sue vittime non gli sono da meno. Soprattutto nel momento in cui giocano con i sentimenti.
Sorrentino continua a professarsi molto pessimista riguardo la natura dell'uomo. Posizione chiara e inequivocabile, suffragata da un cinema che parla chiarissimo in merito. C'è un però. Quello che molti si ostinano a non vedere è che le opere del regista (soprattutto le ultime due) raschiano il barile del mèlo fino all'ultima goccia, essiccandolo e trasformandolo in una folle dichiarazione d'amore all'…amore. Prendiamo Titta e Geremia. Le loro esistenze scorrono lisce, senza intoppi, almeno fin quando non giungono al punto di rottura. Che arriva con l'amore. Le 'conseguenze dell'amore'? Fatali. Per Titta, che perde il controllo sulla propria vita e deraglia sino all'esito fatale. Per Geremia, che si innamora perdutamente di una delle sue vittime, credendo in una cambiamento, in una possibilità di salvezza. L'amore cambia, muta, stravolge e magari porta alla morte. Ma vale la pena di viverlo e di rischiarlo.
L'amore nel cinema del regista è utopia. Ma Sorrentino continua a crederci. Nonostante tutto.

07/11/2006