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BABYLON SISTERS - Intervista al regista Gigi Roccati


L'opera prima nel lungometraggio di finzione ha avuto il suo esordio al festival di Roma in Alice nella Città


BABYLON SISTERS - Intervista al regista Gigi Roccati
Gigi Roccati
Da Alice nella Città al Trieste Film Festival, dal Sudestival ai primi festival stranieri: è iniziato il percorso del film "Babylon Sisters", esordio nel lungometraggio di fiction di Gigi Roccati, regista con un lungo curriculum di documentari e videoclip. In attesa della distribuzione in sala, lo abbiamo intervistato.

Come ti sei avvicinato a questa storia?

Arrivavo da una lunga storia di documentari, che mi hanno fatto girare moltissimo per il mondo, dall'Afghanistan alla Cina, dalla Nigeria al Libano, dove ho vissuto cinque anni e dove stavo scrivendo un altro film.
Poi ho conosciuto Tico Film: loro avevano comprato i diritti del libro di Laila Wadia, "Amiche per la pelle", e io mi sono innamorato di questa storia di donne. Donne che riscoprono la solidarietà e che, unite dalla lotta per il diritto alla casa, diventano una specie di rock band di quartiere, nel tentativo di riparare un'ingiustizia.
Mi piaceva questa idea di glamour suburbano, della riscoperta del valore dell'amicizia, ma anche delle risorse messe in campo nella difficoltà, attraverso l'unione. Senza accorgermene mi sono ritrovato in questa realtà, quella di paillettes comprate al mercato, di rimedi cinesi contro il mal di schiena, di una Trieste città di frontiera ma anche quasi un microcosmo a sé, e anche dei musical bollywoodiani, che - devo dire la verità - finora non avevo mai preso in considerazione!
Ho chiesto di poter fare un adattamento 'libero', ad esempio nel libro la musica non c'era (ed è stata una splendida idea della produzione). Ho pensato che potevo in qualche modo portare elementi di realtà, anche in chiave pop, che avevo esplorato in precedenza nel mio lavoro.
Come diceva Bob Marley, "la musica colpisce senza fare male". Questa è stata la prima ragione che mi ha fatto scegliere questa storia per il mio esordio.

Come hai composto il tuo cast?

La sfida era quella di portare sullo schermo cinque donne di nazionalità diverse, tutte a loro modo speciali, scelte tra attrici non famose. A dire il vero all'inizio andai a Bombay per fare provini e avevo anche trovato un'attrice straordinaria, ma la scelta finale fu quella di cercare donne che rappresentassero meglio il quotidiano di una realtà drammatica del nostro presente.
Il casting è stato un territorio di scoperta: cercavamo una bambina geniale indiana, è cominciato tutto da lì. Abbiamo scoperto Amber Dutta a Italia's got talent, dove ballava. La scelta è stata quasi naturale: con lei al provino c'era il padre, Ashok, che lavora come buttafuori. Ci è parso perfetto per il ruolo.
La ricerca della protagonista, Shanti, è stata lunga, abbiamo coinvolto anche la comunità indiana. Lei ci aveva cercato quando aveva saputo del film, la sua è una storia molto particolare, a un certo punto della sua vita ha lasciato la famiglia ed è venuta in Italia, trovando un lavoro e mantenendosi da sola. Ho pensato che avrebbe portato la giusta carica drammatica alla storia, volevo che ci fossero sentimenti positivi ma anche spessore drammatico. Trattiamo un tema delicato, quello delle nuove cittadinanze.
Per gli attori italiani il discorso è stato diverso: con Renato Carpentieri è stato un incontro meraviglioso, è un uomo straordinario; poi volevo ci fosse un duo musicale all'interno della storia, per avere una sorta di colonna sonora suonata dal vivo nel film, e ho scelto Yasemine Sannino, cantante, e Peppe Voltarelli, cui ho tolto la parola e a cui rimane solo la chitarra per esprimersi.
A loro si sono aggiunti anche molti personaggi che vivono nel quartiere dove abbiamo girato.

Quali sono state le tue ispirazioni sul set?

Io vengo dalla scuola di Mike Leigh, ho avuto la fortuna di lavorare con lui sul set di "All or nothing". Mi è sempre piaciuto il suo modo di lavorare, di scrivere con gli attori, specie per un film corale come questo, come sono spesso i suoi.
Un altro mio maestro è stato Mario Monicelli, su cui feci un documentario per i suoi 90 anni. Lui ovviamente mi trattava male, come faceva con tutti i giovani filmmaker: del suo insegnamento ho cercato di portare all'interno del film l'alternanza di riso e pianto, la capacità di avere entrambe le emozioni.
Poi, per finire, mi sono rifatto anche al lavoro del regista svedese Lukas Moodysson, quello di "Together".

Quale sarà il destino del film ora?

Abbiamo ora un bel calendario di festival, ma siamo al lavoro per trovare una distribuzione italiana, fase quasi sempre complessa per le opere prime. I riscontri che abbiamo ottenuto finora sono molto positivi, speriamo di avere presto delle novità.

20/01/2017, 12:09

Carlo Griseri