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Marcello Guidetti  (12/04/2007 @ 16:37)
Fame chimica è diventata ormai un’espressione comune, ha superato il linguaggio gergale per essere qualcosa di diverso. Riporta quel senso di fame artificiale, svincolata da qualsiasi rapporto con il cibo, decontestualizzata da quella che sarebbe la normalità della fame. E’ un senso di mancanza, di disperazione. I protagonisti del film fanno parte di quella generazione no-future di cui si è tanto parlato. La piazza Gagarin nella quale si ritrovano non sembra nemmeno una piazza. E’ un quadrato di prato spelacchiato, circondato da palazzi brutti, un parco giochi in cui non si manderesbbe nessun bambino. E’ uno dei tanti non luoghi, senza connotazioni. Se come dice Maja nel film “i luoghi sono come le persone”, dovremmo pensare che queste persone sono brutte, anonime, inconsistenti. Invece scopriamo che forse ci sono legami che resistono all’illegalità, alla banalità della vita, alla precarietà di tutto. Rapporti che sembrano “chimici” ossia artificiali, surrogati di quelli che sarebbero i rapporti veri, naturali. C’è una contrapposizione costante nel film tra il surrogato e il naturale. La cooperativa è un surrogato del lavoro vero, così come la periferia è un surrogato di quella che è la città vera e la coca e le pasticche sono surrogati delle vere emozioni e dei veri rapporti. Così come il populismo facile che costruisce recinti e muri è un surrogato corrotto della vera politica che si mette in discussione e dà risposte. Ma ormai questo surrogato è diventato autentico, la cifra stessa della nostra quotidianità. E’ un film dolente questo Fame chimica. Da vedere perché ci mostra cosa sono le nostre periferie e chi sono quelli che a vent’anni pensano di non avere più futuro davanti a loro.
Daniele Baroncelli  (05/09/2006 @ 02:41)
Un film mediocre fin troppo sopravvalutato.

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