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Note di regia del film "Il Passato è una Terra Straniera"


Note di regia del film
ELIO E MICHELE CIOÉ GIORGIO E FRANCESCO
Mi trovo a scrivere queste note mentre missiamo il film. Davanti a me il durissimo scontro fisico tra Giorgio e Francesco nel pre-finale. Mi rendo conto solo ora che la prima volta che ho davvero compreso il film che stavo per fare è il giorno in cui Elio Germano e Michele Riondino si sono incontrati- Non si conoscevano, avevano letto il copione e avevano subito capito che fare il film non sarebbe stata una passeggiata. Si presentarono dandosi la mano, gesto che tra due ragazzi sembra sempre un po’ forzato, avevano un sorriso un po’ imbarazzato e uno sguardo puro, spaventato e guardingo. Leggemmo i dialoghi, scherzammo un po’ sui passaggi narrativi più delicati tanto per cavarci dall’imbarazzo. Dopo l’incontro li sentii separatamente per avere le loro reciproche impressioni, entrambe più o meno mi dissero: "lui mi sembra la persona giusta, ha qualcosa… di vero". Michele conosceva Elio attraverso i suoi film, Elio ovviamente non conosceva Michele che era al suo esordio in un ruolo da protagonista. Io guardandoli assieme ho semplicemente pensato: ecco cosa sono Giorgio e Francesco, due ragazzi che se la vogliono godere. Tutto qua. Solo che oltrepassano il limite tra bene e male senza calcolarne le conseguenze.

PERCHÉ UN FILM DAL LIBRO DI CAROFIGLIO
Per chiarire prima di tutto a me stesso il motivo che mi ha spinto a realizzare "Il Passato è una Terra Straniera", devo fare ricorso ad una serie di sensazioni molto forti che la lettura del libro mi ha suscitato, sensazioni filtrate da un mio crescente desiderio del tutto “cinematografico” di raccontare il lato oscuro delle cose, gli aspetti meno sorvegliati della nostra esistenza sociale e individuale, radicalizzando alcune caratteristiche dei miei film precedenti, nei quali non mi sono mai spinto oltre un certo limite. Avevo forse bisogno della chiave giusta per guardare in faccia quella duplicità degli esseri umani, degli uomini del mio tempo, che mi affascina e mi spaventa sempre di più. E’ inutile nascondersi che tutta la sociologia del mondo non basta per comprendere come certi fatti di cronaca possano accadere, storie di giovani, spesso studenti universitari e figli di famiglie “bene”, che praticano violenze inaudite sulle loro fidanzate, o su ragazze conosciute occasionalmente. Sono storie che ricordano l’espressionismo tedesco, vicende che ci sconvolgono intimamente, perché forse è dalla nostra intimità che prorompono. Ci riguardano, ne riconosciamo i dettagli: un paio di occhiali che sono come i miei, un maglione come quello di mio fratello, un’automobile che desidero da sempre, un appartamento familiare con quella cucina li. Mi sono detto: se voglio raccontare e allo stesso tempo comprendere questa storia, devo fare appello alla mia esperienza personale da una parte, e dall’altra affidarmi all’intuito dello scrittore, uno che conosce il delitto fino in fondo, un magistrato. E’ per questo che ho seguito ogni rivolo indicato dal romanzo di Gianrico, e mi sono imbattuto in Demian. Ad un certo punto infatti Francesco chiede a Giorgio: “hai letto Demian?”. Io si, l’avevo letto poco più che adolescente, e non mi aveva colpito in alcun modo. Rileggendolo mi sono reso pienamente conto che certi temi non sono poi così lontani da me: il confronto tra due giovani uomini, il viaggio in un mondo “sconosciuto”, la condivisione di un “destino” un po’ oscuro e inquietante, il desiderio e l’impossibilità di “un’altra vita”, il vivere in bilico tra due dimensioni, sono tutti elementi ben presenti nei miei film, anche nei documentari… ecco che mi ritrovo a leggere alternativamente Demian e Il passato, e a scoprire che dentro di me ancora vivono alcune sensazioni, molto forti, del periodo precedente all’università e all’impegno politico oltre che alla passione per il cinema. Un periodo nel quale non avevo piena coscienza di cosa fossi, non trovavo posto nel mondo, non amavo me stesso e nemmeno l’idea di diventare adulto mi piaceva un granché. Mi affascinavano le cose poco chiare, gli istinti meno addomesticati, le ragazze più irraggiungibili, le esperienze meno normalizzate e gli amici più pericolosi. Il pericolo mi piaceva, mi affascinava. Inevitabile quindi la scelta di realizzare questo film. Per chiudere un cerchio, inconsapevolmente aperto con "Velocità Massima". Herman Hesse scrisse Demian nel 1916, ma lo pubblicò solo alla fine della guerra, nel 1919. E’ la storia di Emile Sinclair, giovanissimo studente modello che ancora bambino ha la drammatica consapevolezza di vivere due dimensioni di vita apparentemente inconciliabili che mettono a dura prova la sua coscienza e la sua anima: la luce e il bene da un lato, l'oscurità e il male dall'altro. E’ stato educato dai suoi genitori a fare e ricevere il bene, ma le sue pulsioni più profonde lo spingono verso un’esistenza tendenzialmente dissoluta; il buio e il male sono subito personificati da Kromer un suo coetaneo di dieci anni, un tipaccio che viene dalla zona povera della città, che lo sottomette brutalmente attraverso una serie interminabile di soprusi, violenze e minacce. Sinclair, ormai in balia di questo piccolo demone, per sua fortuna incontra Demian, una ragazzo poco più grande di lui che lo salva da Kromer, però prendendone in qualche modo il posto, finendo per influenzare la vita del protagonista ancora di più, seppure in positivo. Demian per Sinclaire è la “figura guida” che lo conduce alla scoperta della verità, del sesso, della storia e del destino, e di tutta la duplicità che queste cose portano con loro. Hesse con questo straordinario racconto descrisse l’ambiguità esistenziale nella quale precipitarono i giovani europei che si formarono a ridosso della prima guerra mondiale. In un dialogo davvero illuminante tra Sinclaire e Demian, Hesse scrive "come? Abbiamo la guerra? Non ci avevo mai creduto" Demian risponde sussurrando "La guerra non è ancora dichiarata, ma ci sarà. Stai pur
sicuro… vedrai quanti entusiasmi. Per la gente sarà una bazza. Già ora tutti si rallegrano di menar le mani… Incomincia un mondo nuovo e questo sarà spaventevole per coloro che sono attaccati al vecchio. Tu che farai?
". Ecco: noi che stiamo facendo? Perché non abbiamo nemmeno la forza di porci certe domande? Sinclaire vive sull’orlo del baratro, come Giorgio. Come tutti noi ancora oggi. Carofiglio, secondo il mio parere, ha genialmente compreso l’importanza di una simile impresa e l’ha attualizzata, l’ha calata nella contemporaneità, infatti il “passato” nel romanzo è il 1989, e nel lavoro di sceneggiatura abbiamo scelto un “passato” del tutto simile al 2008.

IL FILM
Nel romanzo di Gianrico ho visto subito l’opportunità di fare un film privo di compromessi e di ipocrisie, di poter andare diritto al cuore delle mie paure, sperimentandomi in un territorio pericoloso e affascinante, quello tra film di genere e romanzo di formazione. Un territorio di mezzo, indeterminato e incerto, che permette di moltiplicare gli interrogativi di partenza all’infinito: cos’è il bene, cos’è il male, cos’è l’amicizia, cos’è l’amore, cos’è la violenza, cos’è la giustizia…
L’ambiguità nella quale viviamo oggi è forse meno evidente sia di quella del 1916 che di quella del 1989, ma di nuovo siamo in guerra e di nuovo viviamo un’incertezza politica e sociale assolutamente straordinaria. Di nuovo non sappiamo bene cosa pensare di noi stessi, quali siano davvero i nostri bisogni, desideri e sentimenti. Di nuovo siamo attratti da cose estreme, di nuovo la violenza prodotta intorno a noi esplode dentro di noi. Di nuovo troppi uomini sprofondano nell’impotenza e di nuovo sfogano le loro inibizioni sui propri simili, in particolare sulle donne. Di nuovo la coscienza non è chiara a sé stessa e l’umanità non sembra avere più “il sogno di una cosa”. Di nuovo non sappiamo chi siamo e cosa vogliamo. Di nuovo chiamiamo paura la nostra infelicità. E’ un po’ troppo rischiosa questa condizione, potremmo pensare di nuovo che la colpa è di “nemici esterni”, potremmo di nuovo dare la caccia a fantasmi che hanno facce diverse dalle nostre, occhi diversi, lingue diverse, potremmo pensare che per godere davvero di qualcosa fino in fondo, per esempio di una donna, bisogna prendersela e basta, tanto possiamo passarla liscia, possiamo essere perdonati, compresi, persino coccolati. In fondo la propensione a godere la vita senza freni inibitori è molto viva ai giorni nostri, è una delle caratteristiche più evidenti nelle attitudini dei nostri giovani adulti, siano essi “mantenuti” da famiglie ricche che forzatamente disoccupati, oppure giovani lavoratori che vivono al di sopra delle loro possibilità, in un prolungamento dell’adolescenza senza fine, che anziché costruire il loro futuro si attorcigliano attorno ai propri sentimenti. La mia è la prima generazione ad aver sperimentata questa sospensione temporale, infatti è dagli anni novanta che si parla di “eterni adolescenti”. E nell’eternità si può soltanto restare identici a se stessi, cioè marcire nella proprio condizione.
E’ una frase amarissima che Hesse ha messo in bocca a Sinclaire ad avermi dato la chiave di lettura del film che stava prendendo corpo nella sceneggiatura: "La moralità mi ha fatto soltanto soffrire". Infatti il film è innanzitutto la storia di un particolare viaggio agli “inferi” del godimento senza freni e della volontà di potenza. Quello di Giorgio solo in apparenza è un viaggio nel tempo e nello spazio, in realtà è uno sprofondamento nella propria interiorità, nelle proprie pulsioni, nei desideri più intimi e violenti che un giovane può provare. Il co-protagonista Francesco è allo stesso tempo l’immagine speculare di Giorgio ed il tramite per la discesa agli inferi, la classe sociale di appartenenza li divide ma la reciproca irresolutezza li unisce, insieme sono una cosa sola. Nel film Francesco è diventato una vera e propria proiezione dell’animo di Giorgio, quasi il suo doppio. E’ per questo che Giorgio non è semplicemente “affascinato” dal delitto, non è semplicemente testimone dei delitti compiuti da Francesco, ma è egli stesso produttore di delitti, è Giorgio che agisce, che supera Francesco sul suo stesso terreno. E poi dimentica letteralmente tutto. Rimuove gli accadimenti come se non lo riguardassero. Sprofonda nel presente, tanto il passato è una terra straniera, quindi si può stare tranquilli. E’ un tratto fondamentale dell’ideologia contemporanea: se il passato pesa basta dimenticarlo, tuffandosi nell’oggi, cioè nella nostra incoscienza.
Questo sprofondare di Giorgio in sé stesso, non poteva non essere raccontato in soggettiva, con tutto ciò che ne consegue: immagini ambigue, sfocate, sfuggenti e allo stesso tempo violente come solo i sogni e i ricordi improvvisi sanno essere. Ma cercando di non dimenticare mai che questa è semplicemente la storia di due ragazzi qualunque. Due di noi.

Daniele Vicari