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"This Must be the Place", parla Paolo Sorrentino (parte 1)


Come hai conosciuto Sean Penn e come è nata l’idea di questo film?
Ho conosciuto Sean Penn nel 2008 durante la serata finale del Festival di Cannes, l’anno in cui lui era presidente di giuria e io ho vinto il premio della giuria per Il Divo. In quell’occasione aveva espresso giudizi estremamente lusinghieri sul mio film. La cosa mi sembrò un avvenimento sufficientemente eccezionale da spingermi a pensare, utopisticamente, ad un film con lui. Inaspettatamente, come in un autentico sogno americano, l’utopia è diventata realtà.

Da cosa hanno avuto origine i due temi principali del film: il ritratto di una rock star depressa e la caccia ad un vecchio nazista?
Per quanto mi riguarda, ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda.
Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine par excellence: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario.
Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore. Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme a Umberto Contarello, abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante.
Perché solo dentro il pericolo del fallimento, credo che il racconto possa autenticamente vibrare.
Spero di aver scansato il fallimento.

Parlaci del personaggio di Cheyenne. Chi è?
Cheyenne è infantile, ma non capriccioso. Come molti adulti rimasti ancorati all’infanzia ha il dono di preservare solo gli aspetti limpidi, commoventi, sopportabili dei bambini.
Il suo ritiro prematuro dalle scene, a causa di un trauma, lo costringe a condurre una vita che lui non riesce a mettere ben a fuoco. Un trascinarsi, che oscilla tra la noia e il leggero stato depressivo. Galleggia. E sovente gli uomini che galleggiano trovano nell’ironia e nella leggerezza l’unica possibilità decente di stare al mondo. Questo atteggiamento ha un preciso riscontro nella percezione che gli altri hanno di lui: Cheyenne è un autentico, involontario portatore di gioia. E quando nel film Cheyenne afferma in modo candido e sfrontato che “la vita è piena di belle cose” si è portati quasi a credergli. Perché è un bambino che parla e, da qualche parte, è rassicurante pensare che i bambini abbiano sempre ragione.

Perché sentivi il bisogno di raccontare una storia sull’Olocausto?
È sproporzionato affermare che ho fatto un film sull’Olocausto. Il film è ambientato ai nostri giorni. Affonda le mani in quell’immane tragedia solo per squarci, per timide intuizioni o deduzioni. Però è vero che volevo che lo sfondo dell’Olocausto angustiasse l’oggi del racconto di questo film.
Ho cercato di farlo da un’angolazione diversa e, spero, inedita.
Il film si concentra poi, in prevalenza, sebbene con un pudore dettato dalla mia biografia, su un altro pilastro centrale: l’assenza, che possiede per definizione sempre una presenza, del rapporto tra padre e figlio.

Come mai questo nome, Cheyenne?
E’un nome da rock star, da divo del rock. Cercavo un nome che fosse credibile. Abbiamo pensato a uno dei nomi più azzeccati della storia del rock: Siouxsie and the Banshees e abbiamo vigliaccamente mutuato il nome in Cheyenne and the Fellows.

Qual è stata la reazione di Sean Penn alla sceneggiatura?
Ho mandato la sceneggiatura a Sean Penn con la ferma convinzione di essere destinato ad aspettare mesi prima di ottenere una risposta. Voci che non so se corrispondono a verità dicevano che Sean riceve qualcosa come quaranta sceneggiature al mese. Un secondo dopo aver spedito il copione la mia mente già lavorava alacremente a una qualsiasi altra idea di film che avesse un minimo di concretezza, perché francamente mi sembrava impossibile che questa mia bizzarra idea di fare un film indipendente in America con un fresco vincitore di Oscar potesse avere un suo realismo.
Invece dopo 24 ore ho trovato un messaggio in segreteria di Sean Penn. Naturalmente, come avrebbe fatto chiunque altro, ho subito pensato che si trattasse di una burla. Il mio amico produttore Nicola Giuliano è piuttosto abile sia negli scherzi che nelle imitazioni. Mi sbagliavo. Allora, nel cuore della notte, ho parlato al telefono con Sean Penn, che mi ha detto che gli era piaciuto molto il copione ed esprimeva divertito solo preoccupazione per una scena in cui doveva ballare. Mi è sembrato un problema ampiamente risolvibile. Un mese dopo, insieme al mio sceneggiatore e al mio produttore, siamo andati a trovare Sean a San Francisco. Abbiamo trascorso una serata meravigliosa dove, per incursioni improvvise, lui mi lasciava intravedere le sue intenzioni sul personaggio. Confermandomi quello che sospettavo: i grandi attori ne sanno sul personaggio sempre molto di più del regista e dello sceneggiatore.

Qual è stato l’apporto di Sean al film?
Sean Penn è l’attore ideale per un regista. Perché è estremamente rispettoso delle idee del regista e non solo ha il dono di migliorarle, ma possiede anche il talento sconfinato che gli permette di raggiungere un’autenticità e una profondità sul personaggio che francamente a me sarebbero state sconosciute anche se ci avessi riflettuto una vita intera.
Con Luca Bigazzi, il direttore della fotografia, eravamo strabiliati non solo dalla bravura, che avevamo sì messo in conto, sebbene non fino a queste vette, ma anche dalla precisione di tutto. Io e Luca, prima di cominciare un’inquadratura, avevamo sempre tante cose da dirgli, per poi renderci conto, pochi secondi dopo, che non c’era niente da dire, perché aveva capito tutto in anticipo e da solo, gesti, sguardi, precisione dei movimenti, la capacità immediata di facilitare certe inevitabili difficoltà tecniche.

12/10/2011, 14:38