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"L'italianità per Fellini è adolescenza permanente"


Intervista ad Andrea Minuz, autore del saggio "Viaggio al termine dell'Italia - Fellini politico", pubblicato da Rubbettino


"Fellini politico", a prima vista, pensando ai luoghi comuni sul suo cinema può quasi sembrare un ossimoro. Perché invece non lo è?
Andrea Minuz:
A prima vista appare insolito collocare il cinema di Fellini in una dimensione politica. Egli stesso alimentò incessantemente lo stereotipo dell’artista rinchiuso nel proprio mondo fantastico. Insisteva spesso sul fatto che, dall’infanzia, egli trascinava con sé anche la convinzione che “la politica sia una cosa da grandi”.
Tuttavia, questo principio di elisione politica era del tutto funzionale alla costruzione del mito Fellini; a spiegare per certi versi la sua “anomalia” nel contesto assai irreggimentato del cinema italiano del dopoguerra. Un cinema segnato, come tutta la nostra cultura d’altronde, da un forte quanto ingombrante rapporto con la politica. Rapporto esplicito, come nel caso del cosiddetto cinema impegnato. O indiretto, mediato cioè dalla costruzione di forme simboliche, come nel caso di Fellini.
Se nel cinema italiano del dopoguerra si definisce l’incontro tra le due grandi culture populiste dell’Italia, quella comunista e quella cattolica, l’unicum ideologico che esse producono trova nel «caso Fellini» una sua rielaborazione “fantastica”, visionaria.
Inoltre, è Fellini tra i primi a dirci che da questo unicum ideologico, qual è quello italiano, non è possibile tenere fuori la memoria del fascismo, come mostrerà in "Amarcord".
Per questo, in occasione dei funerali di Fellini, già Ettore Scola notava che a suo avviso egli era stato «il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Basti pensare a "La dolce vita" e al putiferio politico che innescò nella società italiana. Certo, poi ne abbiamo fatto anche l’epitome del cosiddetto “Italian Style”, l’icona turistica sinonimo di glamour, frivolezza, mondanità. Ma "La dolce vita" era ben altro.
Insomma, credo che per Fellini succeda un po’ come nel caso di Kafka. Non c’è un esplicito riferimento all’ebraismo nei suoi romanzi o nei suoi racconti. Eppure appare difficile interpretare l’opera di Kafka rimuovendo la dimensione specificatamente ebraica dei motivi profondi che la attraversano.

Qual è stato il primo indizio, il primo film in cui hai pensato all'aspetto politico dei film di Fellini? Hai poi rivisto con altro occhio le sue opere?
Andrea Minuz:
Questo lavoro su Fellini mi è apparso sin da subito in una visione d’insieme compatta. Dal punto di vista della ricerca mi sono avvalso di materiali preziosi conservati in varie cineteche e istituti, tra cui anche un inedito, e cioè il carteggio tra Fellini e Andreotti conservato negli archivi del senatore.
Ho studiato la ricezione de "La città delle donne" nelle riviste del femminismo italiano, ho ricostruito i dibattiti politici su "Prova d’orchestra" e "Ginger e Fred" che tennero banco a lungo sui giornali. Ma da un punto di vista interpretativo, tutto si regge su un solo motivo che ritorna più volte nel libro.
E cioè l’idea che Fellini metta in scena l’italianità come una forma di adolescenza permanente. Tutti i motivi, o se preferisci i luoghi comuni che attraversano la sua opera possono essere ricondotti a questa idea di fondo. Un’idea che coinvolge tutto, incluso il mito di Fellini.
Voglio dire che Fellini non si limita a raccontare per lo più vicende di personaggi incapaci di entrare a far parte del mondo adulto. Costruisce anche un modello di messa in scena che è percorso da cima a fondo da una infantilizzazione delle forme. Valga su tutti il celebre esempio del Rex di cartone in "Amarcord", o la femminilità debordante quando non mostruosa della cosiddetta “donna felliniana”.
La nostalgia dell’infanzia, i fantasmi della femminilità, il sogno – tutti questi motivi ampiamente celebrati dalla critica – assumono, alla luce di una lettura politica, un’unica connotazione patologica. Diventano l’allegoria di una nazione incapace di uscire da un’adolescenza permanente. Ed è qui che l’apparente rimozione del «politico» dalla sua opera assume anch’essa un valore emblematico.

Quale idea ti sei fatto delle idee politiche di Fellini, e cosa racconterebbe oggi?
Andrea Minuz:
Fellini era un artista nel senso più totalizzante del termine. Il fatto di leggere politicamente i suoi film, non significa che Fellini sposasse idee precise, o tanto meno ideologie precise. Nulla di più distante da lui.
L’unica ideologia che percorre il cinema di Fellini è “l’ideologia italiana”. Ed è questa che volevo studiare e mettere a fuoco. Fellini, a mio avviso, va collocato nel solco di quegli intellettuali e artisti che, almeno da Leopardi in poi, si sono interrogati sul rapporto tra l’identità italiana e la modernità, nelle sue complesse implicazioni sociali, culturali, politiche. Come tale, il suo cinema rappresenta un patrimonio inestimabile per capire il nostro Paese.
Riguardo al personaggio. Bé Fellini si muoveva in modo quanto mai trasversale. Fu grande amico di Giovanni Leone e del repubblicano Ugo La Malfa. Confessava di aver votato per quest’ultimo poi per i socialisti di Pietro Nenni, una sola volta per i democristiani e mai per il PCI. Ma nel 1984 lo ricordano impietrito nel picchetto d’onore davanti alla bara di Berlinguer. Sviluppò inoltre una grande ammirazione, prima, un’amicizia poi, con Giulio Andreotti che ho cercato di ricostruire a partire dal loro carteggio.
Mi chiedi cosa racconterebbe oggi. In "Ginger e Fred", che è anche in assoluto la prima satira antiberlusconiana, in anticipo di dieci anni sull’ingresso nella scena politica di Silvio Berlusconi, c’è gran parte dell’Italia degli ultimi vent’anni. Ma Fellini, nell’ultima parte di carriera, non riusciva a lavorare. I suoi film costavano molto, il pubblico era cambiato. Si era modellato su gusti e immaginari televisivi. Per un artista che era sempre vissuto in risonanza con la società, anticipandone spesso le mode e intuendone gli sviluppi, era una grande frustrazione. Non so cosa racconterebbe oggi, ma di sicuro non lo racconterebbe con il cinema.

Tra i suoi film, qual è quello in cui più si possono riconoscere le sue convinzioni politiche, e perché?
Andrea Minuz:
Il film più politico è indubbiamente e com’è noto "Prova d’orchestra".
Per certi versi, benché radicato nel contesto della fine degli anni Settanta e dell’emergenza terroristica, è davvero un’allegoria senza tempo della società italiana. Della sua passionalità continue e delle sue strutture fragili.
Ritratto nel linguaggio simbolico di Fellini, c’è un Paese stanco degli scontri di piazza, della violenza, dell’annullamento dell’individuo nello schematismo ideologico. Ma, soprattutto, si delinea in questo film come sia segnatamente nell’oscuro maglio d’acciaio che si abbatte sull’oratorio nel finale del film, il sempiterno ruolo catartico delle tragedie nazionali. Come un unico e isolato richiamo all’unità di un Paese diviso su tutto, sfibrato nella sua rissosità quotidiana, e che soltanto tra le macerie ritrova per un attimo la sua propulsione collettiva.

I tuoi prossimi progetti?
Andrea Minuz:
Riguardo al cinema italiano, credo che gli anni Trenta siano il periodo che ancora oggi può riservare molte sorprese per uno studioso, anche se molto negli ultimi anni è stato fatto.
Per chi, come me, è interessato alle dinamiche della modernità italiana si tratta di un segmento prezioso. Mi piacerebbe studiare la produzione cinematografica popolare degli anni Trenta alla luce di una più ampia cultura visuale della modernità italiana, intrecciando l’architettura e il design, la moda e i rotocalchi. Studiare ad esempio i modelli di femminilità che vi prendono forma; modelli che sono radicalmente opposti alla donna del cinema neorealista e ai cliché che essa produce. E, in generale, assai meno monolitici, cioè irreggimentati nell’orizzonte della cultura fascista, di quanto si pensi.

26/03/2012, 09:00

Carlo Griseri