Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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FdP 56 - Intervista a Livia Giunti e Francesco Andreotti


I registi del documentario su Piergiorgio Welby "Love is All" raccontano il film.


FdP 56 - Intervista a Livia Giunti e Francesco Andreotti
Livia Giunti e Francesco Andreotti
Otto anni a partire dalle prime riprese. Cosa ha portato il progetto ad avere tempi così lunghi?
Livia Giunti e Francesco Andreotti: A questo punto siamo a 9 anni! I motivi sono diversi ma possiamo ridurli a due principali. Innanzitutto il fatto di muoversi in totale indipendenza, autoproducendosi, quindi dovendo nel frattempo fare altri lavori senza potersi dedicare completamente e con continuità a questo progetto; soltanto dal 2012 abbiamo cominciato a dedicarci in maniera continua e concentrata al film. E poi la necessaria ricerca, riflessione, analisi, sedimentazione e rielaborazione dei materiali che negli anni raccoglievamo e aggiungevamo a questa sorta di “museo Welby” che abbiamo via via messo insieme. Non è stato facile arrivare al film che avevamo in mente perché a tratti ne sentivamo concretamente la realizzabilità e a tratti eravamo colti da dubbi e timori. Nel frattempo abbiamo realizzato delle videoinstallazioni, presentato i libri di Piero insieme a Mina, partecipato allo spettacolo teatrale di Emanuele Vezzoli… quindi in realtà si è trattato di un lungo processo di decantazione, croce e delizia di produzioni con queste caratteristiche.

Sono poche le parole di esterni, il film si costruisce attraverso le parole di Welby come un vero autoritratto. Cosa vi ha spinto a volere lui in persona come cantastorie di se stesso?
Livia Giunti e Francesco Andreotti: Fin dall’inizio, con la prima videoinstallazione che realizzammo nel 2008, l’idea era quella di dare la parola a lui e alle immagini della sua vita, senza intrometterci troppo. Come offrire allo spettatore un buco nel muro da cui osservare Welby che si raccontava con le proprie parole e immagini. Un Piergiorgio privato, diversissimo dall’icona sofferente che invece ha voluto/dovuto offrire negli ultimi mesi di vita attraverso i tg. È stato istintivo per noi voler subito capire chi c’era dietro a quell’icona e iniziare a indagare l'aspetto umano di chi aveva lasciato la propria vita con quella forza e semplicità. Questo è stato il primo desiderio che ci ha mosso e dobbiamo dire che è stato sempre più confermato dalla scoperta, negli anni, di numerosissimi scritti autobiografici in forma poetica e narrativa (il suo romanzo postumo curato da Francesco Lioce, “Ocean Terminal”, è uscito alla fine del 2009) ma anche autoritratti fotografici, pittorici, video. Nel 2010 Mina ci raccontò che Piergiorgio aveva voluto acquistare una videocamera per filmare la propria morte… poi nel 2014 è spuntata da una scatola quella foto magnetica che abbiamo utilizzato per la locandina del film: un autoritratto fotografico degli Anni Settanta che Piero stesso, sempre ironico e autoironico, ha ritoccato a tempera dandosi un look da "indiano metropolitano" come si diceva allora. Insomma, Piergiorgio per tutta la vita non ha fatto altro che raccontare se stesso e la propria condizione, si è autorappresentato in decine di modi, utilizzando tecniche e linguaggi artistici diversi, con grande creatività, umorismo e consapevolezza.

A differenza di quanto si possa pensare rispetto a un film su Welby, il tema predominante non è la morte, ma l'amore, soprattutto quello per la vita. Quanto avete dovuto lavorare di sottrazione per ottenere un simile risultato poetico?
Livia Giunti e Francesco Andreotti:
"Morire mi fa orrore, io amo la vita Presidente" dice Welby nella lettera a Napolitano. Questo è stato fondamentale per noi. C’è ovviamente anche tutta la dimensione tragica nel film ma in questi anni immergendoci nei suoi scritti e nelle sue immagini abbiamo sempre respirato un’enorme vitalità, uno slancio vitale fortissimo, assolutamente non scontato neppure tra i cosiddetti sani. E una grandissima ironia e capacità di non prendersi troppo sul serio. E anche le persone che hanno vissuto con lui – la sorella, Mina, Francesco Lioce – ci hanno restituito racconti pieni di vita e di amore, tanto che inizialmente nel film volevamo dare spazio anche loro. Le loro testimonianze insieme agli altri materiali raccolti, verranno utilizzate per un progetto di web doc che lanceremo nei prossimi mesi. Molte volte abbiamo sentito dire che Welby era il malato da cui si cercava conforto; nella sua stanza andavano gli amici e i parenti a chiedere consigli, a cercare sollievo, a provare a vedere il mondo e se stessi con quell’ironia welbiana capace di capovolgere ogni situazione. E nel film poi abbiamo dovuto rinunciare a tantissime cose che inizialmente ritenevamo importanti per far capire la storia, soprattutto questioni tecniche complesse di cui la vicenda Welby è costellata. A un certo punto abbiamo deciso che il film doveva essere un viaggio il più possibile interiore, soggettivo, personale; mentre il web doc che abbiamo in mente darà spazio agli aspetti più informativi e testimoniali.

Il film gode di una bellissima colonna sonora di Tommaso Novi, che accarezza lo spettatore e aiuta a raccontare questa dolce, se pur difficile, avventura di un grande uomo. In che direzione avete collaborato?

Livia Giunti e Francesco Andreotti: Tommaso Novi ha visto diverse “bozze” del film e ha lavorato inizialmente su una versione molto molto acerba. Volevamo poca musica, poco invasiva, ma che esprimesse atmosfere particolari in momenti stabiliti. Il punto di partenza è stato riascoltare una composizione che Tommaso ci aveva dato diversi anni fa e che abbiamo utilizzato per la sequenza onirica del Verano in un primo breve montaggio realizzato nel 2012. Gli abbiamo fatto vedere e ascoltare questa sequenza con la sua musica e da lì Tommaso ha cominciato a elaborare alcuni pezzi che potessero inserirsi in certi punti precisi del film. Ma così come è accaduto spesso anche per gli altri elementi del film, l'ordine pensato andava riformulandosi alla prova dei fatti in un processo lento (a tratti estenuante!) di conquista gradino dopo gradino del giusto tono, del giusto ritmo, momento dopo momento. Possiamo dire che il film ha cercato quelle musiche e che quelle musiche hanno cercato il film. Si è proceduto con questo doppio movimento a cercarsi, lavorando creativamente a distanza. Queste sonorità un po’ discordanti ci piacevano molto per raccontare una dimensione a volte sospesa, a volte incerta, a volte misteriosa e inquietante; e poi c’erano invece altri momenti del film in cui serviva più respiro e distensione, momenti musicali che sottolineano dei cambiamenti positivi nella vita di Piergiorgio, in questo “balletto” continuo tra vita e non vita. Non è stato per niente facile… e ringraziamo Tommaso per aver saputo trovare i tasti e le note giuste!

Partecipazione fondamentale per il film è stata la famiglia, in particolare la moglie Mina. Ci sono racconti e temi che di comune accordo avete voluto lasciare fuori o vi siete sempre scambiati suggestioni senza alcun tipo di paura di tradire la fiducia?
Livia Giunti e Francesco Andreotti: In effetti, pensando al percorso fatto, adesso ci sembra un po' folle anche a noi l'idea di poter chiedere così tanto a una famiglia (che in realtà poi sono tre famiglie), ovvero di lasciarti entrare nel loro vissuto, appesantiti da borse e borsoni contenenti luci, microfoni e telecamere. Mina è stata il nostro Virgilio, cui poi si sono aggiunti dopo qualche anno anche Carla Welby (sorella) e Francesco Lioce (nipote).
Mina è una forza della natura. Fin dall’inizio ci ha dato fiducia e ha accolto con grande entusiasmo ogni nostra iniziativa, a partire dalla prima videoinstallazione. Non ci sono stati mai tabù e non ci è mai stato chiesto di non raccontare qualcosa. Negli anni siamo rimasti stupiti dalla loro grandissima apertura mentale, perché le scelte che abbiamo fatto per raccontare questa storia, nelle diverse fasi della lavorazione, sono state piuttosto particolari e a volte potevano risultare di difficile comprensione. Ma ci hanno sempre supportato, con grande entusiasmo e partecipazione. Quello che abbiamo realizzato da subito è che l’impegno di tutta la famiglia Welby è sempre stato coerente e trasparente nei confronti della vicenda, fin dalla diagnosi di Piero degli Anni Sessanta: sono tutti impegnati nel raccontare, divulgare, sensibilizzare. Non ci sono cose di cui non si può parlare o che non si possono mostrare. E Piero, che la sorella Carla definisce con dolce ironia "il padrone del vapore" alludendo al suo essere analitico e determinato, quando ha deciso di mostrarsi in tv nella lettera al presidente Napolitano, ha mostrato a tutti gli italiani una via d'uscita, a nostro avviso addirittura più ampia rispetto alle tematiche del fine vita. Welby e la sua storia, indicano e rappresentano un metodo, un indirizzo etico per questo nostro povero paese spaesato.

04/12/2015, 18:42

Antonio Capellupo