Note di regia del film "Prova a Volare"
Appartengo ad una terra, le Marche, e ad una città, Senigallia, in cui ho scelto di restare per vivere tra la mia gente. Molti miei coetanei hanno fatto altre scelte e sono andati via. Eppure la nostra non è una terra povera: ci sono molte piccole imprese con una buona tecnologia, aziende agricole gestite in modo razionale, servizi per il turismo, centri commerciali, infrastrutture portuali e poi le scarpe che come si fanno qui non le fa nessuno e Diego Della Valle ne sa qualcosa. Insomma si lavora, non troppo perché a Senigallia chi non ha tempo di oziare al bar è visto male, ma quanto basta sì. C’è tuttavia una sensazione di marginalità, come una percezione di essere “altrove”, che ho considerato per molto tempo inspiegabile.
Questo stato d’animo non è dovuto alle dimensioni contenute delle nostre città, né alla considerazione che nelle grandi metropoli ci siano più occasioni e maggiori stimoli, perché la stessa cosa non accade, l’ho verificato, nel sud più estremo. Lì i giovani vanno via perché non c’è lavoro, perché non c’è l’acqua, perché mancano le infrastrutture, perché c’è la mafia; lì la gente ha la percezione del sottosviluppo non della marginalità. Se poi prendo la macchina e me ne vado lungo l’adriatica a nord, dopo Gabicce Mare la situazione è già diversa. Cattolica,
Riccione, Rimini, è sempre provincia ma questo disagio della mente non c’è. Il fatto è che la Romagna, la Calabria e la Sicilia, sono scenari acquisiti nella coscienza collettiva; hanno una loro centralità nel modo in cui gli italiani comunicano a sé stessi ( e agli altri) il loro paese. Le Marche no. Questa terra è stata rappresentata sempre come territorio di passaggio, come una via di collegamento da un punto a un altro, mai come luogo d’arrivo in cui stare. La cinematografia italiana ne è una conferma. Ad esclusione, forse, del solo film d’esordio di Giuseppe Piccioni, le poche pellicole ambientate nelle Marche, da Ossessione di Visconti (curioso, anche questo un esordio) a La Stanza del figlio di Moretti, non si sono soffermate sui caratteri particolari del territorio e delle persone che ci vivono, non hanno costruito dei personaggi che esprimessero l’identità della gente delle Marche. Questo è un problema per noi che non ci rispecchiamo in archetipi che ci rimandino un senso forte di identità, per tutti perché manca il nostro contributo alla definizione dell’identità collettiva. Affrontare questo problema è uno dei proponimenti del film che intendo realizzare.
I protagonisti della storia sono due giovanissimi. Alessandro ha vent’anni, è rimasto improvvisamente orfano e deve confrontarsi con la responsabilità dell’azienda di famiglia. Il suo tentativo di fuga dalla responsabilità non è un segno nevrotico dell’immaturità delle nuove generazioni, bensì la sana reazione di un ragazzo che vuole difendere il suo diritto di avere vent’anni. Per rimandare una decisione che sente come una resa al mondo degli adulti, fa il cameraman per Tonino, un fotografo di matrimoni. Questi è il tipico marchigiano, astuto e concreto nella sopravvivenza quotidiana ed ingenuo e sognante nella fantasia del futuro. Di fatto, un uomo ancora legato nella memoria e nei sentimenti ad una civiltà contadina che sopravvive, nonostante tutto, nelle cerimonie matrimoniali che fotografa. Gloria è un’adolescente di sedici anni che “deve” sposarsi perché è rimasta incinta. Pietro, il padrepatriarca, è un uomo tutto d’un pezzo, con un’etica che non consente alternative: una figlia incinta deve sposarsi, anche se questo significa allontanarsi dall’essere che più ama al mondo. Anche Gloria, nonostante i suoi sedici anni, ha un carattere tutto d’un pezzo e, con la stessa determinazione con cui il padre ha organizzato il matrimonio, lei ha pianificato la fuga. Alessandro, ignaro, rientra nei suoi piani. Così ha inizio un viaggio verso un paesino della Lucania nel corso del quale tutto gradualmente cambia: il paesaggio che si apre nelle piane meridionali prive di insediamenti, dove il giallo del grano appena tagliato si alterna al nero del fuoco che ha bruciato le stoppie per la nuova aratura; la realtà interiore dei due ragazzi che si riconoscono nella fuga ed iniziano ad elaborare il loro rapporto con il mondo degli adulti. Anche Pietro e Tonino, gli adulti, percorrendo la stessa strada sulle loro tracce, si riconoscono come padri e hanno modo di riflettere sui principi a cui hanno improntato la loro vita. Questa “storia marchigiana” pone una domanda universale: può convivere il mondo della libertà e dei sogni dell’adolescenza con quello della responsabilità dell’età adulta?
Lorenzo Cicconi Massi