Note di regia del film "La Fabbrica dei Tedeschi"
Nessuno si sarebbe aspettato di trovarsi davanti ad una rottura tanto brusca di “quell’incantesimo" che si era creato nella Torino industriale dopo la ristrutturazione della Fiat.
7 morti, la chiusura a tempo indeterminato della fabbrica, famiglie che piangono i defunti, lavoratori senza prospettive, è questo il bilancio che si trae dopo l'incendio divampato la notte del 6 dicembre alla Thyssen Krupp di Torino. Ad oggi nessuna risposta definitiva a quei tanti perché. Si, perché tante volte in questi mesi ci si è chiesto perché è successo: se lo sono chiesti i lavoratori dell'acciaieria, le famiglie, la procura, i sindacati...un dubbio è apparso persino nell'alta dirigenza dell'azienda. Perché, in una fase di tale avanzamento tecnologico delle aziende metalmeccaniche e di automatizzazione dei processi produttivi, possono accadere simili incidenti?
Nel settembre del 1980 Cesare Romiti, allora amministratore delegato della Fiat, illustra, nel suo discorso agli azionisti al Lingotto, il suo piano di ristrutturazione. È un progetto ambizioso, fondato sull'innovazione tecnologica, sull'introduzione della robotica nelle linee produttive, su un forte investimento verso la modernità, la costruzione di un incantesimo che avrebbe trasformato la Fabbrica da girone dantesco in un perfetto e asettico polo tecnologico.
La grande fabbrica appare come un luogo perfetto e sicuro, che quasi si autoalimenta senza avere bisogno di risorse umane: l'operaio diviene un semplice controllore e non operatore.
Ma è veramente così?
I 7 morti della Thyssen ci hanno svegliato dal sogno e ci hanno portati davanti alla realtà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, operai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul luogo di lavoro. Gli invisibili dell'azienda modello diventano, in una sola notte, tragicamente visibili, non solo mostrandosi come vittime ma facendo riapparire, in modo determinato e concreto, la "popolazione" della fabbrica. Nessuna teoria: possiamo entrare in contatto con quegli operai, ascoltarne i racconti, vederne i volti. la loro storia arriva da lontano. La fabbrica di Corso Regina Margherita apparteneva al polo siderurgico delle Ferriere Fiat, un comparto di eccellenza che viene ceduto alla Finsider - holding siderurgica dell'Iri - negli anni 80 e, da questa, svenduta alla azienda tedesca
Thyssen Krupp negli anni 90. Dall'inizio della sua storia, nonostante i passaggi di proprietà privato-pubblico-privato, non ha mai smesso di essere un comparto di punta nel ramo e di produrre consistenti fatturati, ma, ancora una volta, i vertici aziendali decidono di smantellarne una parte: il 30 settembre 2008 la Thyssen Krupp di Torino deve essere chiusa e la produzione spostata a Terni.
Il 6 dicembre 2007 gli impianti in funzione sono quelli di una fabbrica che sta per essere dismessa: qualche aggiustamento sarebbe necessario, qualche pezzo dovrebbe essere cambiato, è quello che si dicono tutti lì dentro, ma tutti sanno che a fine febbraio proprio la linea 5 sarà la prima ad essere smantellata. Sarebbero necessari controlli ed interventi strutturali, non per garantire un avanzamento produttivo, ma per mantenere "decente" i livelli di sicurezza per quelli che lì ancora lavorano.
I ragazzi si occupano più del loro futuro che di quel monotono presente. Sono ancora in 160, la maggior parte sotto i 30 anni, superspecializzati, si occupano d'acciaio: si alternano giorno e notte per non far mai spegnere il magma ferroso. Durante il cambio turno discutono, valutano le possibilità che si prospettano: qualcuno si arrovella sulla proposta dell'azienda di trasferirsi alla fabbrica di Terni, altri si scambiano informazioni su dove presentare il curriculum, anche se sanno bene che la situazione a Torino ormai va verso l'azzeramento del settore siderurgico, Antonio Boccuzzi - unico sopravvissuto all'incendio dopo aver tentato di salvare i suoi compagni - relaziona sull' incontro avuto al sindacato, altri imprecano sulla mancanza di solidarietà dei torinesi.
Una sera come le altre, da quando hanno saputo di dover abbandonare il proprio lavoro. Tutti diversi, ma con simili preoccupazioni, con idee che si affastellano nella mente mentre compiono quegli atti di routine, tutti con lo sguardo in una unica direzione e con una unica domanda: "
chissà qual è l'ultima volta che è stato controllato quel cazzo di estintore?"
Poi lo scoppio.
La cronaca ci ha raccontato il resto: le morti sopravanzate a scaglioni (un lutto durato quasi un mese), la città che si indigna, la politica che esprime tutta l'inadeguatezza, il sindacato che invoca lo sciopero, la procura che indaga, la Thyssen che non risponde.
E poi c'è la rabbia. Una rabbia mai sopita, che nasce dalle domande, dall'assenza di risposte, dalle tardive scuse; una rabbia cieca che travolge tutti e che a tutti quei ragazzi ed alle loro famiglie fa ripetere "
come è possibile che sia successo?"
Mimmo Calopresti