Note di regia del film "Solo un Padre"
Un giorno di due anni fa, durante una pausa pranzo, ero seduto ad un tavolino di un bar con un uomo e due donne; io e l‟uomo, diventati da poco padri, stavamo parlando di pappe e pannolini, mentre le due donne discutevano della prestazione di Totti e della rincorsa della Roma per recuperare punti in classifica. Questa premessa per introdurre uno degli argomenti principali del film: “la paternità” e quanto essa resti un tema poco affrontato dal cinema rispetto alla maternità, nonostante abbia subito profondi mutamenti negli ultimi anni. Per un padre comprendere cosa significhi veramente avere un figlio è un processo meno diretto e istintivo rispetto a quello materno; quando ho letto per la prima volta il romanzo di Nick Earls sono rimasto attratto dall‟evoluzione del protagonista che, nella sua drammatica situazione, cerca di affrontare il suo nuovo ruolo, il più difficile della vita: essere “solo un padre”. Per me è stato un film complesso e affascinante, non mi ero mai confrontato con una sceneggiatura così drammatica; volevo ricreare un‟atmosfera precisa, che avevo in mente, raccontare allo spettatore la “pelle perfetta” dietro cui Carlo si maschera. Volevo parlare della sua vita normale, in cui tutto è giusto, ordinato, previsto, ma dove affiora continuamente, con forza e violenza, ciò che è nascosto da questa maschera di serenità. Ho voluto poi alleggerire in alcuni momenti la narrazione, per riuscire a dare ancora più forza ai drammi interiori, cercando un equilibrio difficile e delicato fra leggerezza e dramma. Si è trattato di un‟altra sfida molto interessante: la realizzazione di una “commedia drammatica”.
Per farlo mi sono servito di due piani narrativi: il primo molto freddo, con una recitazione piena di distacco emotivo in cui si snoda la quotidianità di Carlo, e un secondo più sotterraneo in cui si muove, con dolore e amore misto a incredulità, la sua vicenda emotiva, in un periodo della vita pieno di ansie e rimorsi.
A queste due distinte strutture narrative ho fatto corrispondere due distinti tipi di inquadrature. La vicenda di Carlo prima della sua evoluzione emotiva (primo piano narrativo), ho cercato di renderla attraverso numerosi campi larghi e piccoli calcolati movimenti di macchina. L‟ho fatto per integrare il più possibile i nostri protagonisti all‟interno della scena e porre l‟accento sulla loro apparenza piuttosto che sulla loro umanità. Il cambiamento interiore di Carlo e la conseguente sofferenza (secondo piano narrativo), ho voluto raccontarlo attraverso l‟uso della macchina a mano più vicina a Carlo, Camille e Sofia e, se vogliamo, più nervosa e imprecisa. Alla fine il secondo piano prenderà il sopravvento sull‟altro e questo porterà ad una vera e propria liberazione; la sovrastruttura inutile delle convenzioni cederà sotto il peso della vita pulsante. Ho cercato di creare questo delicato equilibrio di leggerezza e intensità anche attraverso l'atmosfera della Torino invernale, la fotografia intensa e delicata di Manfredo Archinto, la colonna sonora di Fabrizio Campanelli, un giovane musicista capace di seguire le emozioni del film e dei personaggi, senza mai rendere la musica gratuita o distaccata dalla narrazione. Tutti questi ingredienti mi hanno permesso di raccontare la storia come volevo, non come una semplice storia d‟amore, ma come la scoperta di cosa significa amare: la vita, una donna e, soprattutto, una figlia. Carlo è un personaggio emblematico in un‟epoca in cui difficilmente si sa e si vuole soffrire, in cui nessuno ama fare sacrifici e in cui, di conseguenza, non si sa più amare nemmeno se stessi, gli altri, la vita. Carlo diventa simbolo di un‟ indifferenza e un‟apatia, a mio avviso sempre più diffuse, che generano tra la gente una forma di passività e rassegnazione. Temo si tratti di un malessere pericoloso e difficilmente contrastabile della nostra era. Grazie alla sua esperienza del dolore, unito alla gioia della paternità, Carlo rinascerà e inizierà a saper amare.
Luca Lucini