Note di regia del documentario "Davanti e Dietro le Sbarre"
Ogni volta che accendo la telecamera mi chiedo quali storie devo raccontare, come le devo raccontare e perché. Dunque che cos’è il cinema? “Finzione”, si dichiara quasi all’inizio di questo documentario.
Una filmmaker non proprio alle prime armi, ma certamente, con le armi ancora troppo poco affilate, si trova a vivere per la prima volta l’esperienza di un set cinematografico vero, con un regista vero, delle maestranze vere, degli attori veri, delle tecnologie vere. Dunque un cinema vero.
Un cinema vero impegnato nella costruzione di un film, nella messa in scena di una commedia musicale, di una storia che racconta della messa in scena di uno spettacolo teatrale. Una finzione dentro un’altra finzione.
Ecco cosa si trova a vivere la filmmaker chiamata ad occuparsi del making of di questo film, ecco la realtà che lei deve registrare e documentare attraverso il proprio occhio meccanico ed il proprio sguardo sul mondo: un corto circuito che si carica, un corto circuito in tensione. La questione si complica enormemente, dal punto di vista della filmmaker almeno, nel momento in cui la commedia da girare si svolge pressoché totalmente in un carcere.
Un carcere vero.
Carcerati veri, guardie vere.
Allora cos’è vero? Anzi, cos’è più vero?
Il cinema o un carcere? Qual è la verità del cinema e quale quella di un carcere?
Qual è il senso di queste due “strutture” così (pre)potenti, totalizzanti, così distanti da incontrarsi, scontrarsi, compromettersi l’una con(tro) l’altra tra i corridoi, i bracci e sul nastro di una cassetta?
Il linguaggio della troupe – silenzio, motore, non vi muovete, azione, fermi, zitti – e il gergo tipico dei carcerati – sembri vera – e delle loro guardie.
L’esaltazione dei primi, la scaltrezza dei secondi e l’emozione di tutti nel trovarsi “prigionieri del cinema”.
Più volte mi sono chiesta se fosse giusto stare lì dentro a fare il cinema, mentre alcuni di loro, non tutti ma alcuni sì, sono lì dentro “a marcire a lungo”.
Il senso del tempo, poi, è talmente differente, opposto: il tempo cinematografico veloce velocissimo, più veloce è, meglio è, il cinema ha fretta; il tempo carceraio è scandito, invece, da una lentezza pesante, asfissiante, dalla reiterazione di gesti e tragitti, potenzialmente all’infinito.
Alla fine mi sono risposta da sola: sì è giusto stare lì, semplicemente perché loro lo vogliono per convenienza o divertimento, non importa. Eravamo tutti in ballo e ciascuno, a modo suo, ha ballato.
Antonella Grieco