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"Io, loro e Lara": non è un film nichilista


Non credo che il nuovo film di Carlo Verdone sia nichilista. Anzi, ho la sensazione che sia uno dei suoi lavori più positivi fra quelli degli ultimi tempi, un’opera profonda e intimista. Di "Io, loro e Lara" (che racconta la storia di un prete missionario in un villaggio africano quasi sul punto di perdere la fede) se ne è parlato sul Corriere della Sera come di un bel film, però nichilista. Il nichilismo, definito da Nietzsche “ospite inquietante”, è la negazione di ogni valore, un atteggiamento sociale negativo su più livelli verso il quale il regista romano non mi sembra affatto orientato.

Carlo Verdone è un regista attento (e coscienzioso) e possiede la grande capacità di descrivere le minuzie e i tic dell’animo umano in maniera formidabile. Il film di cui stiamo parlando è un racconto permeato di amarezza che riporta, con eleganza, i dubbi di molti preti di oggi. Carlo lo ha già fatto con altri caratteri, scandagliandone vizi (troppi) e virtù (in minoranza), e adesso ha scelto di raccontare le incertezze – tutte umanissime – della vita di un prete missionario. Non credo che raccontare la strada del dubbio equivalga a scegliere la via del nichilismo. Penso che Carlo Verdone sia un autore positivo, uno che guarda con fiducia al futuro e alle tante capacità che hanno le persone comuni. In fondo, i suoi personaggi non sono quasi mai cattivi sul serio, sono solo umani e sbagliano in quanto tali, ma lui gli lascia sempre una porta aperta, uno spiraglio da cui ricominciare. Non può essere troppo pessimista un regista che esordisce comprando, ancora ragazzo, una Super8 dalla giovane amica Isabella Rossellini e comincia a fare film sperimentali e underground (materiale purtroppo andato perso e che oggi sarebbe stato bello rivedere) per raccontare le storie della gente. Secondo me, ha mantenuto quella freschezza iniziale. In "Io, loro e Lara" ci viene offerto il ritratto delicato di un prete vero, garbato, che combina pasticci suo malgrado. È un prete diverso da quelli rappresentati nei film precedenti. In quei personaggi c’era la caratterizzazione squisitamente caricaturale di nevrosi e manie, qui c’è invece l’immagine di un prete normale, un personaggio creato in un sapiente gioco di equilibri con l’aiuto di alcuni suoi amici sacerdoti.
Il prete di questo film è sereno e tranquillo, mai isterico o angosciato, ma solo dubbioso, e debole, come tutti gli esseri umani. Carlo Verdone è un regista che si prepara molto prima di girare e che non lascia nulla al caso. Amo molto, per esempio, il fatto che si impegni a conoscere nella vita reale gli attori con cui lavora prima di cominciare. È un’intrusione ben giustificata. E, anche per questo film, ha usato un metodo alla Actor’s Studio, ascoltando le vicende di amici sacerdoti per ricavarne un personaggio lontano dalla vecchia impostazione clericale. Ma questo, forse, è un bene, non un male: in un momento di crisi totale (anche della Chiesa) chissà che un personaggio come questo non faccia riflettere in maniera diversa sulla condizione dei preti e sul loro scopo di vita, che è quello di aiutare sempre gli altri, anche a costo di cacciarsi in situazioni paradossali e, talvolta, ridicole e sconvenienti. Viviamo in un periodo di perdita quasi totale della memoria storica e di grandi smarrimenti. Queste sensazioni investono ognuno di noi e c’è bisogno di disegnarle e descriverle con sincerità, mettendo in conto giudizi negativi.

Carlo Verdone ha cercato di raccontare un sacerdote “normale”, un uomo di chiesa che fa parte a pieno titolo dell’italiano medio da sempre raccontato nei suoi film ( come già fatto in precedenza dal mai dimenticato Alberto Sordi). Ne è uscito fuori, a mio avviso, un film bello, lontano dagli eccessi di un certo autorismo e da quei film sgangherati e volgari che si vedono in giro ultimamente. Carlo Verdone ha raggiunto un alto livello di performance, ma non solo: è capace di mantenerlo costante nel tempo, giocando su tempi, inquadrature e citazioni musicali raffinate. È il regista della società, e se la società negli ultimi tempi ha poca anima ed è triste e svuotata, non è colpa sua. Lui la rappresenta, la dipinge come un quadro sulla tela arricchendola di sprazzi comici e surreali, ma mai pessimisti, sempre entrando in punta di piedi nelle vite dei personaggi e mettendosi in relazione con gli altri. Non riesco a leggere in quest’opera – e nemmeno nel suo finale – del nichilismo, né la mancanza di speranza del credente. Anzi. Ci vedo proprio il contrario. Il Woody Allen italiano, l’autore dal faccione tondo e rassicurante che analizza le italiche nevrosi ( che, tra l’altro, quest’anno compie trent’anni di carriera) è autoironico e lavora su un finale felice che non è posticcio (come è stato detto) ma è contenuto nelle parole del finale stesso e nella visione dei familiari tutti lì sul divano, in un’immagine di speranza lontana da qualsiasi scetticismo. Magari velata da un filo di malinconia, elemento che da sempre contraddistingue la produzione di Carlo.

Quello che non mi ha impressionato, casomai, è il contributo dei comprimari (anche eccellenti, come nel caso della Bonaiuto). Lì Verdone è scivolato nella trappola del macchiettismo di maniera e non ha raggiunto completamente il traguardo della descrizione della società attuale, rimanendo comunque un acuto osservatore e “pedinatore” degli italiani, come lui stesso si definisce spesso. E, forse, manca anche un approfondimento della realtà clericale, di cui Verdone ha esaminato solo pochi aspetti, prima di fare il film. Però non c’è, secondo me, nichilismo in "Io, loro e Lara", casomai un filo di tristezza che culmina nella dedica finale allo scomparso padre Mario.

11/01/2010, 11:45

Claudia Verardi