Michele Mellara-Alessandro Rossi: "Il nostro cinema cerca di raccontare
sempre storie corali, di piccole o grandi comunità"
Come nasce l'idea per la realizzazione del documentario "La Febbre del Fare, Bologna 1945-80"?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Il Comune di Bologna stava cominciando a realizzare un progetto di archiviazione audiovisiva che coinvolgeva varie istituzioni cittadine. Ci chiesero di realizzare delle interviste agli ex amministratori della città che sarebbero state inserite, e in parte lo sono state, nel portale web del Comune di Bologna. Rendendoci conto, da subito, che poteva essere un’occasione unica per raccontare la storia politica della nostra città, insieme alla Cineteca di Bologna si formalizzò una collaborazione affinché l’idea di realizzare un film documentario divenisse realtà.
Come avete vissuto in prima persona quegli anni a Bologna? Cosa c'era di "magico" e bello?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Il film racconta Bologna dal 1945 al 1980. Noi nel '77 bolognese avevamo rispettivamente 10 (Michele) e 7 (Alessandro) anni. Bambini con le ginocchia sporche che giocavano nei cortili. E’ ovvio che raccontando la nostra città potevamo attingere dagli innumerevoli racconti e testimonianze delle persone a noi vicine. Abbiamo però compiuto una scelta diversa: cercare di indagare la città come un’entità a noi sconosciuta, lontana. Cercare di porre distanza tra noi e il soggetto del racconto. Filtri. Abbiamo letto tanto, stabilito delle collaborazioni con alcune persone che avevano una conoscenza profonda della storia della città ed infine ci siamo buttati negli archivi audiovisivi cittadini a cercare le nostre pepite di celluloide.
Cosa avete privilegiato nella scelta degli splendidi materiali d'archivio presenti nel documentario e cosa avete tagliato nella post-produzione?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Il processo di ricerca del materiale d’archivio è stato lungo e complicato. Il progetto, dalla sua nascita alla conclusione, è durato due anni. In questo lasso di tempo non abbiamo mai smesso di "rovistare" negli archivi. Il ricco archivio della Cineteca di Bologna, quello Storico del Comune, l’archivio dell’Istituto Parri e dell’Istituto Gramsci, ma anche gli archivi nazionali più noti, come quello del Movimento Operaio e Democratico, dell’Istituto Luce, delle Teche Rai. Il film documentario si compone quasi integralmente di questo tipo di materiali. Non abbiamo girato un singolo fotogramma in più a parte le interviste agli ex-amministratori realizzate però non direttamente per il documentario ma per il progetto archivistico del comune e quindi, in parte, archivio anche loro. E’ stata una scelta precisa. Ridare forma e vita a materiali, a volte straordinari, spesso dimenticati. Abbiamo utilizzato il materiale seguendo due macro percorsi stilistici: il primo è consistito nel cercare di intervenire il meno possibile sulla messa in scena perché il “visivo” già ci sembrava estremamente significante, lente d’ingrandimento sociale di un’epoca scomparsa, il secondo percorso invece è stato di segno opposto, intervenire con il montaggio in una nuova scrittura dell’archivio combinando insieme materiali anche molto distanti tra loro o ridefinendo percorsi di senso con decontestualizzazioni sonore e musicali. All’interno del film documentario ci sono, a nostro giudizio, vari momenti di poesia visiva determinati dall’archivio. Per citarne solo alcuni. Il primo filmino realizzato per raccontare Bologna (del 1911), il sindaco Giuseppe Dozza che regala i pacchi natalizi ai bambini bisognosi (nell’immediato dopoguerra), i materiali di Renzo Renzi, di Carlo di Carlo, i primi filmini di propaganda americana sul Piano Marshall. Alcuni di questi materiali sono inseriti nel film mantenendo il loro montaggio e la loro sintassi originale ma acquistano forma poetica grazie alle giustapposizioni tra il prima e il dopo filmico e gli accostamenti audio; altri invece sono stati interamente riassemblati.
"La Febbre del Fare, Bologna 1945-80" è un documentario storico/sociale, ma anche una riflessione sulla contemporaneità. Come giudicate la società attuale a fronte delle vostre ricerche per realizzare l'opera?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: La storia è sempre contemporanea. Il documentario pur raccontando il passato dialoga per sua natura con il presente, e ciò che, a nostro giudizio appare più evidente, paragonando la stagione del dopoguerra a quella odierna, è che un tempo (non vogliamo essere nostalgici ma alcune cose bisognerà pur dirle?) la dimensione del bene pubblico, l’assunzione di responsabilità da parte della classe politica, era più chiara, netta, decisa. Per dirla in altri termini esistevano delle idee cardini, degli ideali condivisi da ampie masse di persone, e a quelli si tendeva, definendo l’azione politica non in funzione di un giorno per giorno (o peggio ancora di interesse di clan) ma con un respiro di lunga portata.
"Mellara-Rossi" è ormai un duo inscindibile della cinematografia italiana. Potete raccontarci la vostra storia autoriale, di cui fa parte, oltre ai documentari, anche il lungometraggio "Fortezza Bastiani"?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Lavoriamo insieme da parecchi anni, una dozzina ormai, siamo abituati al confronto serrato su ogni lavoro che mettiamo in cantiere. La nostra collaborazione si fonda su un grande rispetto di ciò che può fare l’altro per il film, a volte è più importante ascoltare che dire. Il processo artistico è un percorso irto sempre di nuovi ostacoli, le buche sono tante ed inciampare fa parte del gioco. Bisogna avere la forza di alzarsi e proseguire. In due, se la cosa funziona, ci si può aiutare. E’ un equilibrio molto delicato quello del lavoro in coppia, spesso ci capita di rispondere a chi ci chiede come si fa a lavorare in due che non esiste risposta a questa domanda. E’ come sbucciare una cipolla, alla fine non ti rimane niente in mano. Pensiamo che sia un profondo patto fiduciario (artistico, intellettuale, amicale) quello che ci lega, appena però cerchi di definirlo ti rendi conto che sei sempre parziale e approssimativo. Alcune cose a dirle a voce alta si rompono. Abbiamo attraversato il teatro, il cinema e il documentario sempre cercando di trovare le collaborazioni giuste per ogni progetto in campo. Michele ha studiato cinema (1996/97) alla London Film School, nel 1999 abbiamo vinto il premio Solinas con la sceneggiatura “
Fortezza Bastiani” dalla quale abbiamo tratto il nostro primo film lungometraggio di finzione che uscì al cinema nel 2002/2003 (Finalista Miglior esordio al David di Donatello). Da allora il cinema documentario è stato il nostro principale impegno, anche se, nel 2006, dopo vari anni, siamo tornati al teatro con l’ideazione di uno spettacolo itinerante “
Mosca Petusky 125 Km” che è stato rappresentato con successo a Roma, Firenze, Bologna, Mantova. L’adattamento del testo era curato da Ermanno Cavazzoni (l’autore dell’ultimo film di Federico Fellini, “
La Voce della Luna”), e questo forse è un dato importante del nostro percorso. Le collaborazioni: lavorare in due ci porta naturalmente a pensare alla creazione come un atto da farsi in gruppo. Con alcune persone lavoriamo ormai da molti anni: Nicola Bagnoli e Sandra Reggiani hanno composto le musiche di molti nostri documentari, Ilaria Malagutti organizzatrice e produttrice degli ultimi tre film con lei e con il regista Francesco Merini abbiamo creato una società di produzione, la
Mammut Film ormai cinque anni fa. Altre collaborazioni sono più legate a singoli progetti: con Paolo Nori, altro scrittore emiliano, scrivemmo insieme il trattamento e insieme andammo a girare il documentario “
Domà, Case a San Pietroburgo” così come con Loriano Macchiavelli abbiamo scritto una sceneggiatura per un film lungometraggio dal titolo “
Carogne” che speriamo presto di realizzare. E non dimentichiamo i montatori: Fabio Bianchini, Mirella Carrozzieri e Valentina Girodo che risultano indispensabili anche per attutire i momenti critici che di solito attraversiamo proprio in montaggio.
Da "Domà - Case a San Pietroburgo", fino a "La Febbre del Fare, Bologna 1945-80" per passare da "Un Metro sotto i Pesci" e "Le Vie dei Farmaci" avete trattato nelle vostre opere svariati argomenti. Come scegliete i soggetti? Cosa volete "raccontare" nel vostro cinema?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Il nostro cinema (documentario e fiction) cerca di raccontare sempre storie corali, di piccole o grandi comunità. “
Fortezza Bastiani” è il racconto di una micro comunità di studenti che vive in conflitto e simbiosi con la più allargata comunità studentesca bolognese. “
Un Metro Sotto i Pesci” racconta la micro comunità di pescatori di Santa Giulia (paesino situato nella parte estrema del delta del Po), “
Le Vie dei Farmaci” racconta la macro comunità mondiale composta dalle persone che hanno diritto ai farmaci, “
La febbre del fare, Bologna 1945-80” racconta la gente di Bologna. Ovviamente i documentari raccontano anche molto altro ed ognuno nel farlo cerca un linguaggio, una forma visivo-narrativa particolare e specifica. Però, forse, se dovessimo trovare un minimo comune denominatore tra i diversi lavori messi in campo il fatto che si concentrino su una collettività, piccola o grande che sia, è un dato importante. Siamo più attratti dall’affresco che dal ritratto o meglio dal rapporto dei singoli con il loro ambiente, la loro comunità. Inoltre ci piace cercare storie o racconti in spazi e contesti che conosciamo poco, che sono da scoprire, che richiedono ricerca. Non applichiamo pedantemente il nostro stile a tutte le storie ma lo adattiamo alla materia narrativa. Ci piace il percorso della conoscenza che impone il documentario.
Per concludere, come considerate l'attuale panorama cinematografico italiano?
Michele Mellara e
Alessandro Rossi: Tempo fa a un convegno organizzato dall’Associazione dei documentaristi dell’Emilia Romagna, della quale facciamo parte, Giacomo Manzoli, professore del DAMS di Bologna, disse che il cinema è come un iceberg del quale si conosce la superficie fatta di quel poco, pochissimo che passa nelle sale di prima visione. Ma la potenza e la forza dell’iceberg è sommersa ed è quella che lo fa muovere. La parte sommersa viene chiamato alternativamente cinema sperimentale, indipendente, autoprodotto, di cinematografie minori. Per noi il documentario è esattamente quello spazio di indefinibile cinematografia che si muove con un grado abbastanza ampio di libertà alla ricerca di possibili racconti, nuovi modi per narrarli e diverse modalità per produrli. E guarda caso molto di questo cinema “del futuro” nasce e si muove fuori dai centri classici di produzione, dalle metropoli, periferico senza essere provinciale, che è ben altra cosa. Il resto, a parte rare eccezioni, rimbalza fra commedie già stanche nei trailer, come dice il direttore della Cineteca di Bologna, e film horror scarsamente efficaci.
14/03/2010, 18:04
Simone Pinchiorri