Note di regia del documentario "1514 le Nuvole non si Fermano"
Quando il mio amico Mattia mi chiese di fare un documentario sul popolo Sahrawi accettai subito, istintivamente. Conoscevo ben poco sui Sahrawi, ma ciò che mi venne in mente in quel momento, fu il ricordo di un popolo che sapevo da molto tempo in lotta per la propria indipendenza. Mattia lavora nei campi profughi Sahrawi, ormai da dieci anni e, insieme all'associazione El Ouali, organizza ogni anno un evento di solidarietà internazionale per il popolo Sahrawi, la Sahara Marathon, attraverso la quale centinaia di persone si trovano a vivere un'esperienza unica: una settimana con i Sahrawi, nelle loro tendopoli, in mezzo al Sahara, nel sud dell'Algeria.
Attraverso la partecipazione alla maratona, questi stranieri, perlopiù occidentali, possono vedere e comprendere le difficoltà in cui vive un popolo che ha deciso di sacrificare il proprio benessere in cambio della libertà.
L'idea di utilizzare l'evento Sahara Marathon, come escamotage narrativo, nasce non soltanto per raccontare il popolo Sahrawi oggi, ma per affrontare le cause storiche legate al conflitto con il Marocco e che hanno portato alla costruzione di un muro difensivo nel mezzo del deserto, raccontare la guerra, l'esodo in Algeria, la separazione dalle famiglie restate nei territori occupati, la vita nei campi profughi e la dipendenza dagli aiuti umanitari. Infine, rendere noto all'opinione pubblica che esiste un referendum di autodeterminazione, che i Sahrawi aspettano da ben diciannove anni.
L'aver scelto la maratona come metafora della scoperta di una comunità che, da trentacinque anni, lotta per la propria indipendenza, è stato per essere coerenti e per urlare, attraverso le immagini e i racconti di vita, di un popolo escluso dal palcoscenico mediatico a causa dell'assenza di un conflitto armato.
Maratona come rappresentazione di un'intensa e faticosa esperienza di consapevolezza di quei sacrifici e delle difficoltà quotidiane legate alla vita nei campi profughi. Maratona come storia, quella di Cristiana, una maratoneta tra tanti, che si trova catapultata in un universo che mai avrebbe immaginato. Cristiana ci guida in questo viaggio, in una corsa che ci pone degli interrogativi, ci fa riflettere, attraverso la storia, con discrezione ed emozione al tempo stesso. Lo sguardo di questa giovane donna potrebbe essere il nostro, quello di chiunque, o dovrebbe in qualche modo esserlo.
Ma una maratona è stata anche l'organizzazione di 1514. La scelta di non cercare subito finanziamenti e quindi di autoprodurre il film, ci ha permesso di essere veloci, agili e di partire immediatamente con la produzione. Un film nato e cresciuto in viaggio, tra Roma e Bologna, organizzato in un mese, nel febbraio 2009 e, girato in dodici giorni, da una troupe di cinque donne. Un lavoro che ha richiesto lunghe serate di studio e documentazione, per cercare di comprendere una situazione storica molto complessa e per capire il singolare percorso che ci avrebbe portato dentro un campo profughi in mezzo al deserto del Sahara.
Il tutto si è chiarito dopo il nostro arrivo nel campo di Smara. I lunghi spostamenti in mezzo al deserto, per raggiungere le diverse tendopoli e le nottate passate a fumare, ascoltando i racconti di Mohamed, la persona che ci ha ospitato, nonchè nostra guida, ci hanno permesso di trovare la giusta chiave di lettura per capire cosa tiene, da lunghi anni, questo popolo di nomadi fermo in mezzo al Sahara: la determinazione nell'attesa.
Una troupe di sole donne è stata una scelta premeditata e ci ha aiutato molto nella realizzazione del film. Sopratutto perché ci siamo trovate a raccontare la vita di una particolare società musulmana e matriarcale, dove il rispetto per l'identità femminile, la parità tra i ruoli e la valorizzazione della donna sono consuetudini acquisite da molto tempo. In conclusione, vorrei soffermarmi su come ho deciso di rappresentare la storia dei Sahrawi. Nonostante l'effettiva tragicità, che impernia ogni aspetto del loro quotidiano, avrei potuto scegliere di raccontare questa storia privilegiando, sopratutto, gli aspetti emozionali e sensazionalisti legati al loro dramma. Ho invece preferito lasciare loro la parola, offrendo ad ognuno la possibilità di raccontarsi attraverso la propria dignità.
Sostengo fermamente che il coinvolgimento riguardo a temi, quali i diritti umani di un popolo, risulti più efficace quando viene stimolato, nello spettatore, il riconoscimento della dignità e dell'integrità altrui, al di là della tragicità legata ai fatti. E credo che solo la reale condivisione di tali principi universali possa stimolare l'intensità della nostra indignazione e spingerci verso la richiesta di un reale cambiamento.
Il messaggio che si evince, dai discorsi e dalla voce dei Sahrawi, è quello di un popolo che aspira fortemente al principio dell'autodeterminazione, così come è stato sviluppato nel 1945 dalla Carta dei Diritti dell'Uomo. Donne, uomini e bambini che resistono, cercando di costruire, ogni giorno, le basi per un futuro diverso e concreto. Nel fare ciò, i Sahrawi non hanno mai perso la positività, la cordialità e l'apertura verso l'altro, lo straniero, note e caratteristiche che contraddistinguono questo popolo straordinario in una terra lontana. A voi il privilegio di scoprirne l'essenza, raccontata attraverso i nostri occhi.
Carlotta Piccinini