Note di regia del documentario "Era el Azul"
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A volte mi viene voglia di offrirmi il lusso di un incantesimo, un sortilegio o una vertigine. Non è a Melusina che mi rivolgo: interrogo una lucertola, una rosa, una nebbia. Mi tuffo negli occhi di una donna, di un bambino, di un gatto, purché non abbia gli stivali. Oppure prendo un aereo delle sette leghe e raggiungo un paese lontano. Con un po’ di fortuna finisco con il trovare un colibrì (un beija-flor). Le sue ali hanno un’ampiezza di sei millimetri. Pesa quanto un chicco di grano. Contemplo all’infinito, all’infinito quella creatura minuscola, finché mi immagino tutto ciò che contiene: un cuore con diastole e sistole, nervi, uno stomaco, un cervello, recettori di odori e colori, giovinezza o vecchiezza, occhi estasiati oppure tristi a seconda dei momenti del cielo, piume, riflessi, udito, desideri sessuali, capogiri, dolori, ricordi di fiori e paure di morire. La lezione che mi offre un colibrì vale bene un Graal, senza ombra di dubbio!"
Gilles Lapouge, L’inchiostro del viaggiatore
Visto dall’alto del satellite di Google map, il paese di Luis Beltrán appare come un minuscolo quadrato bianco nel verde dell’isola di Choele Choel, sul Rio Negro, Patagonia Argentina. Un quadrato di un chilometro di lato. Al di là del fiume sono evidentissimi i grandi campi circolari del canadese McCain, il maggiore fornitore di patate fritte surgelate di McDonald’s. Dicono che si innamorò della zona e si comprò 23.000 ettari di terreno incolto. Una superficie delle dimensioni dell’isola d’Elba, quando solo le chacras (i poderi coltivati) più grandi dell’isola raggiungono i 50 ettari.
Dei quattro paesi sorti sull’isola di Choele Choel, Luis Beltrán è il più piccolo, poco più di duemila abitanti, ma era nato con altre ambizioni: la chiesa, che avrebbe dovuto essere (e forse, chissà, un giorno sarà) al centro, dista ancora oggi poco meno di un chilometro dalle case del Barrio Jardín, il quartiere più a est, ed è immersa nella campagna.
La chiesa si vede bene dal Circulo Italiano, che a sua volta si trova al di fuori del paese propriamente detto. Il Circulo è un ritrovo occasionale, dove chi vanta, o ricorda, l’origine della propria famiglia, cerca il luogo e scrive il nome proprio e quello del paese sulle pareti, dove sono state dipinte gigantesche regioni italiane. L’effetto è curioso, molto “pop art”. Carlos Raúl "Conejo" Pedranti è il presidente del Circulo, cerca di tenerlo vivo organizzando cene o tornei di scacchi, ma sull’area dove sorge l’edificio potrebbe nascere, da un momento all’altro, una moderna stazione per pullmann. Alcuni soci del Circulo sono d’accordo a cedere il terreno, altri resistono.
In tempi difficili per l’Argentina, i primi anni Ottanta, Pedranti è stato per due volte intendente, sindaco, di Luis Beltrán. Alle domande su quel periodo risponde spostando l’attenzione verso le necessità primarie per il paese, a cui era necessario dedicarsi in quegli anni: fognature, acqua, gas in tutte le case. Il periodo della dittatura non è evocato volentieri, da nessuno. Pedranti racconta di quando si trovò a fronteggiare l’emergenza causata dall’arrivo di alcune centinaia di immigrati dal Laos, proditoriamente trasferiti dalle città del Paese asiatico alle campagne dell’isola dopo un accordo fra i governi centrali: incapaci di coltivare, di pescare, ignari della lingua e avendo probabilmente poco chiaro dove fossero finiti, i laotiani rischiavano letteralmente di morire di fame. In paese ci sono ancora alcuni laotiani, ma molti hanno preferito trasferirsi negli Stati Uniti.
Venticinque anni fa è nato il Museo di Moni Gundín. Moni Gundín era rimasta vedova e per distrarsi aveva incominciato a cercare resti della Campaña del desierto e vestigia indigene scavando all’interno e all’esterno dell’isola. Oggi il Museo è un concentrato di spazio e tempo: entrando nell’unica stanza si trovano, a destra, ossa fossili di dinosauro, poi il viaggio inizia, prosegue e finisce con un computer Commodore 64, passando attraverso i reperti trovati nel deserto da Moni Gundín e i ricordi personali donati da tutte le famiglie del paese: fra questi una macchina per cucire, una parte di una lanterna di un proiettore cinematografico, una sedia da dentista, un anello probabilmente massone, una bandiera gallese, fotografie e dipinti. Ogni oggetto ha una storia da raccontare.
L’acqua è protagonista: Hugo “Loco” Cognini ha accettato di rappresentare una fittizia ricerca dell’acqua nel deserto, lui rabdomante e attore appare credibilissimo quando afferma che c’è un corso d’acqua a sessantacinque metri di profondità. Il padre di Hugo, a sua volta rabdomante, è arrivato in Argentina a diciassette anni, clandestino su un mercantile. Il fratello di Hugo ha una ben avviata attività commerciale.
L’irrigazione delle poche coltivazioni dell’isola avveniva un tempo attraverso le ondate di piena del Rio Negro, poi i gallesi, che fondarono il paese e che iniziarono a coltivarne le terre, realizzarono le prime opere idrauliche per razionalizzare l’uso delle acque del fiume. Le odierne opere per l’irrigazione dell’isola di Choele Choel furono in gran parte realizzate da emigrati italiani nel secondo dopoguerra. Walter Corona arrivò qui all’età di due anni, quando la madre Clara decise di raggiungere il marito che aveva trovato lavoro dopo avere lasciato Buenos Aires: la vista del porto lo invitava al ritorno, la nostalgia era insopportabile. Alcuni dicono che arrivò a Luis Beltrán casualmente e qui si fermò perché si trovò a giocare a carte con persone che gli parvero gradevoli. Clara gestisce ancora, insieme a figli e nipoti, la ferreteria (la ferramenta) lasciatale dal marito, da poco scomparso. Vicino al vecchio piccolo negozio è pronto per l’apertura il grande capannone, decorato all’esterno con un enorme tricolore verniciato.
«Io ho il fiume qua, dietro a quegli alberi» dice Domenico “Mingo” Cirillo con un certo orgoglio e ci mostra il sistema di irrigazione della sua chacra. Mingo ha lasciato Buenos Aires e ha acquistato la chacra che fu del padre di Hugo Cognini. Oggi vende pere, ciliege, prugne e mele ai suoi cugini, proprietari della ditta “El abuelo” (il nonno), che raccoglie e commercializza buona parte della frutta prodotta sull’isola.
Da Buenos Aires sono “migrati” anche Eduardo Montangero, meccanico, attore del Grupo Teatro Libres e illuminotecnico, Maria del Carmen “Tachi” Finocchi, musicista e Fabio “Tano” Ghilardi, tutti con antenati italiani.
Proprio la storia di Fabio “Tano” Ghilardi, che si definisce “due volte emigrato”, è centrale nel film ERA EL AZUL: figlio di un emigrato da Ponte S. Pietro e di una discendente di una famiglia altoatesina trasferitisi dal sud a Buenos Aires dopo il matrimonio, ha abbandonato da pochi anni la metropoli, dai ritmi e dalle tensioni ormai per lui insostenibili, per tornare con la moglie e la figlia in Patagonia.
Quasi veterinario, ittiologo, artigiano, organizzatore di eventi culturali, Fabio ostenta il nomignolo di “Tano”, ben sapendo che un tempo questo appellativo era usato con disprezzo nei confronti degli italiani. Appena arrivati in Argentina, a Buenos Aires avevamo incontrato il padre di Fabio, Arturo, che ci aveva raccontato la sua storia, il suo “sradicamento” da Ponte S. Pietro al deserto patagonico. È stato naturale proporre al figlio di condurci nei luoghi dove il padre era vissuto cinquant’anni fa.
Dapprima a Valcheta, sulla Linea Sur, la linea ferroviaria che collega la città di Viedma, sulla costa atlantica, con Bariloche, sulla Cordillera. A Valcheta era nata la madre, figlia di emigrati tirolesi che lasciarono l’isola di Choele Choel e intrapresero un viaggio di centocinquanta chilometri nel deserto, verso sud, per raggiungere questa specie di oasi. Qui il nonno di Fabio piantò la vite e produsse vino, piantò alberi da frutta e creò un allevamento di pecore e cavalli. La tradizione di fare il vino si perse con la morte del nonno e oggi i tronchi degli alberi morti che spuntano nell’erba alta sono un’immagine triste e inquietante. Il “pellegrinaggio” si è chiuso ad Aguada Cecilio, paese di poche case intorno alla ferrovia della Linea Sur, quaranta chilometri a est di Valcheta. Qui il padre di Fabio visse per tre anni, incontrò la futura moglie a Valcheta, dove si recava talvolta a ballare, la frequentò e con lei lasciò per sempre la Patagonia e si trasferì a Buenos Aires.
Il titolo del film ERA EL AZUL (Era il blu) è evocativo (potrebbe ben essere il titolo di un tango…) e ha un riferimento cinematografico argentino, come un riferimento cinematografico argentino trova “Tano” nel finale quando mostra la sua futura casa, ancora da costruire e parla della necessità per ognuno di cercare “un lugar en el mundo”, un luogo nel mondo, titolo di un film argentino, affermando di essere fortunato perché lui, il suo “lugar en el mundo” è riuscito a trovarlo qui, a Luis Beltrán, Rio Negro, Patagonia Argentina.
Alberto Valtellina