Note di regia del film "Scontro di Civiltà
per un Ascensore a Piazza Vittorio"
Quando ho letto per la prima volta il romanzo “Scontro di Civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”, dello scrittore algerino Amara Lakhous, ho avvertito nettamente di aver trovato una matrice attorno alla quale costruire un racconto cinematografico. Un racconto che cercasse di indagare e di interpretare uno degli aspetti più laceranti e conflittuali della nostra epoca: il temuto, discusso, negato o invocato scontro di civiltà che, punteggiando d’incognite il nostro presente e il nostro futuro, infiamma il dibattito politico, sociale, culturale e religioso dei nostri giorni.
Questo tema è sviluppato nel romanzo di Lakhous attraverso la piccola folla multietnica che anima le vicende di uno stabile a piazza Vittorio, nel cuore del più multiculturale dei quartieri di Roma: l’Esquilino.
Le voci dei vari inquilini, italiani e stranieri, costruiscono un mosaico dei singoli drammi esistenziali e dei molteplici equivoci quotidiani della convivenza.
Nell’universo chiuso del condominio dove, nell’illusione della proprietà, si invocano diritti, si concepiscono malintesi e malanimi, si consumano dispetti tragici e ridicoli, i protagonisti svelano frammenti di vita intrecciati attorno all’ascensore, spazio comune costantemente motivo di liti condominiali. S’incontrano e si scontrano, ciascuno con i propri tic e pregiudizi, come in una commedia all’italiana, in cui il sorriso è provocato dalla riflessione. Emergono simmetriche paure e diffidenze, alimentate dall’ignoranza, dall’indifferenza, dall’isolamento auto-inflitto e subito, e raccontano come l’identità possa definirsi e darsi una ragione solo rispetto all’alterità.
Lo scontro di civiltà appare come la ricerca e l’affermazione di un’identità necessaria e ambita da ciascuno dei personaggi, nel caos dello sradicamento dalle proprie origini, sia esso il frutto drammatico della necessità, come per gli immigrati o del sentimento, spesso altrettanto drammatico di invasione, come per gli italiani. Ricerca che si aggrappa alle manifestazioni collettive più profonde come il linguaggio, la religione, o a quelle solo apparentemente più superficiali come la cucina o l’aspetto. Ricerca che non mette in opposizione soltanto italiani e stranieri, o etnie diverse, ma che riguarda gli stessi italiani, divisi a loro volta da differenze regionalistiche, di classe, di appartenenza.
In questa ricerca, ciascuno dei personaggi finisce, per contro, a esprimere con prepotenza la propria singolarità e su di essa si insiste per presentare un universo di posizioni dove il bene e il male, il positivo e il negativo non hanno appartenenza etnica, ma sono insiti nella dimensione individuale, nella storia particolare di ciascuno.
Tutti questi aspetti risultano prioritari nel romanzo, mentre la prospettiva giallistica è solo sullo sfondo e non appare determinante, anzi quasi pretestuosa, come afferma lo stesso Lakhous, che ha dichiarato di aver scelto la cornice del noir perchè questo è il genere narrativo che meglio si adatta alla nostra epoca, che è l’epoca dell’urgenza e della sovraesposizione dell’informazione, nella quale si riesce a ricevere un po’ d’attenzione solo quando “ci scappa il morto”. Nel tentativo individuale di capire chi ha ucciso il gladiatore, i personaggi raccontano se stessi. Ma questo intento, che è raggiunto nel libro attraverso testimonianze successive, che non sono altro che dei monologhi interiori, non è supportato da un vero e proprio intreccio.
Il film, quindi, si basa sulla volontà di galvanizzare la ricchezza dei personaggi e dei temi sviluppati nel romanzo attraverso un impianto narrativo che, pur discostandosi dalla trama originale, approfondisce le relazioni tra i caratteri ed esalta le potenzialità drammaturgiche e spettacolari dell’ambientazione. Il tono brioso e divertito del romanzo si mescola alla suspense della trama poliziesca, e alla drammaticità delle situazioni.
Isotta Toso