Note di produzione del documentario "Venticinque sul Filo."
Succede anche agli uccelli migratori: di tanto in tanto, qualcuno si ferma e non torna più a svernare nei paesi caldi. Diventa stanziale e “dimentica” la via del ritorno. Per gli emigranti è la stessa cosa: sono arrivati senza sapere cosa fare e, poi, sono restati, hanno trovato lavoro e nuove abitudini. C’è chi è arrivato subito dopo la guerra e chi più tardi. Sono scesi nella miniera, la “mina”, e giù hanno faticato e scavato; alcuni hanno resistito più di altri, la polvere cementava i polmoni. Ma è stata la loro vita, la loro memoria. Il carbone si attaccava alla pelle come una crosta tenace, resistente all’acqua e al sapone. La città, di sopra, era piena di bar dove, la sera e nei giorni di festa, che lì dovevano sembrare troppo corti, i minatori andavano a placare la sete accumulata nelle profondità calde come forni. Adesso la miniera non funziona più; le costruzioni all’esterno sono state cancellate da strade larghe e diritte, vie di transito delimitate da capannoni e centri commerciali. Luoghi dove uno può girare all’infinito, uguali in ogni punto, dove ci si perde perché si ha la sensazione di arrivare sempre nello stesso posto. Questi sono i confini della città. Una volta si usciva di casa per andare di sotto e la gente, probabilmente, non alzava gli occhi perché lo sguardo andava a sbattere contro la fabbrica. Tanto valeva prepararsi subito al rumore delle gabbie che portavano nelle gallerie, centinaia di metri più in basso. Oggi si può vedere l’orizzonte, ma gli spazi sono privi di identità e la memoria non trapela. Sergio cerca di farci “vedere” quello che un tempo era parte – forse la più importante – della loro vita, ma ci sembra di girare a vuoto. Facciamo fatica ad immaginare quello che c’era. Giovan Battista ci racconta il lavoro della miniera mentre scende nel tunnel su una scala che una volta non c’era e che adesso serve per le visite dei turisti. Da quando aveva smesso di lavorare, più di trent’anni fa, non ci aveva messo più piede. Il fumo della centrale nucleare fuoriesce da un camino alto come un palazzo e si alza nel cielo con la sua bellezza inquietante, incredibilmente bianco contro l’azzurro del cielo, cosa rara in quel paese dominato dal grigio. Tutto un mondo è passato. Resistono le feste, dove tutti arrivano per mangiare e ballare. C’è il coro e ci sono le piccole riunioni nelle case per cantare le canzoni di sempre. Le parole che narrano il passato non sanno di nostalgia. Un’anziana donna in vestaglia racconta di venticinque uccellini appollaiati sul filo che, prima di partire alla fine dell’estate, si erano come attardati per un ultimo, esitante saluto. Forse qualcuno avrebbe voluto restare, come il piccione viaggiatore che non è più andato via ed è rimasto con gli altri. Anche lui ha trovato una casa.
Angelo Signorelli