"Una Sconfinata Giovinezza": l'infanzia, l'amore
e la malattia raccontati da Pupi Avati
“
Una Sconfinata Giovinezza”, il nuovo film di
Pupi Avati, è un’opera sorprendente e magica, capace di rivelarsi anche innovativa, nel percorso del prolifico regista, per la sua capacità di introspezione. Tutta la prima parte del film appare canonica e rigorosa nel narrare il percorso di regressione mentale, ma anche esistenziale, del protagonista; il racconto inizialmente procede in modo almeno apparentemente non eccessivamente caloroso, permettendo certo di partecipare alle sorti di Lino e di Chicca, a tratti anche divertendo, ma allo stesso tempo senza troppo colpire. A questo piano narrativo è però abbinato il racconto dell’infanzia del personaggio principale, scelta che apparentemente non sembra funzionale alla narrazione del presente e risulta, sulle prime, un po’ forzata forse perché troppo tipica della poetica del regista (peccato per alcuni momenti che risultano perlomeno poco fini e che quindi potevano essere evitate). Più o meno dopo un’ora di film
Pupi Avati riesce a stupire sconvolgendo il ritmo narrativo a lungo perseguito, rivelando quindi anche le sue intenzioni non ancora dichiarate. Un evento imprevisto sconvolge infatti la struttura narrativa di “
Una Sconfinata Giovinezza”, portando maggiormente lo spettatore dentro la storia. Così il vero e proprio viaggio che intraprende il protagonista diventa presto un tragitto anche mentale; in questo modo il regista dà sempre più libero sfogo alle emozioni, approdando ad un finale magico e struggente, estremamente toccante e poetico, capace di ispirare non solo profonde e leopardiane riflessioni ma anche implicazioni metafisiche.
Quando Lino rimane da solo nel bosco e chiama "
Perché", il cane che non può rispondere perché deceduto almeno trent’anni prima, sembra di assistere alla sua dolorosa richiesta di una motivazione a quella che è diventata la triste regressione della sua mente e quindi della sua vita. Il fatto che la risposta arrivi, ed arrivi esclusivamente a Lino, non può che fare riflettere riguardo al destino benevolo e sino a quel momento sconosciuto che ha evidentemente pilotato le sorti del protagonista sin dalla sua nascita, ovviamente a sua insaputa.
Senz’altro il regista non poteva chiudere il film in modo più emozionante e catartico, toccante e sentito, profondamente struggente, e solo sui titoli di coda capiamo che
Pupi Avati non è forse mai andato così a fondo nella ricercata autenticità delle sue rimembranze. La visione di “
Una Sconfinata Giovinezza” lascia una intensa sensazione di benessere e di gratitudine, probabilmente perché la sensibilità dell’autore permette, certo a chi ne è ancora capace, di comprendere quanto può realmente rivelarsi preziosa, unica e non casuale, la propria esistenza, e quindi di quanto ci si può avvertire fieri e lieti di essere ancora vivi, appunto per la liberazione di riscoprire quanto possa risultare magari piacevole perdersi, appunto come il protagonista del film, in un mondo che forse si è dimenticato di noi solo nel contesto della dimensione che conosciamo, ma non si è scordato della nostra presenza da un punto di vista ben più maestoso che, probabilmente non a caso, è proprio quello che ci è ignoto e a cui inevitabilmente aneliamo, più o meno consapevolmente, nel percorso di progressione (o regressione che sia) della nostra vita.
Per quanto riguarda gli interpreti è innanzitutto più che apprezzabile, anche perché coraggiosa, la scelta di invecchiare i propri protagonisti interpretati da
Fabrizio Bentivoglio e
Francesca Neri, che non mancano mai di essere diretti con cura; è da citare tra gli altri attori almeno Serena Grandi, ben valorizzata e decisamente intonata.
“
Con questo film ho lasciato che si rivelasse liberamente il bambino che si agita in me”, ha dichiarato
Pupi Avati durante la conferenza stampa. “
Con “Una Sconfinata Giovinezza” ho voluto raccontare primariamente del sortilegio della mia infanzia che è la magia che credo sopravviva nella fanciullezza di ognuno di noi se la sappiamo riconoscere e ritrovare. Tutti infatti abbiamo vissuto qualcosa di irripetibile che ci manca più o meno sensibilmente”.
“
Quello che rientra nel film sono un po’ tutti elementi sedimentati nella mia memoria che mi si sono riproposti all’attenzione quando sono andato a ricordare certe cose”, ha continuato il regista bolognese. “
Volevo includere nella narrazione dell’infanzia del protagonista anche l’idea della resurrezione, proprio perché nel momento della fanciullezza non è solo bello, ma è prima di tutto naturale, pensare che ogni cosa sia possibile. E mi piace ritenere che questo dato di fatto sia reale perché da piccoli siamo ancora a contatto con quell’altrove misterioso dal quale ognuno di noi proviene. Questa idea mi inteneriva molto, e non ho potuto fare a meno di raccontarla”.
05/10/2010, 21:24
Giovanni Galletta