Note di sceneggiatura del film "Un Altro Mondo"
Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di questo film la prima cosa che ho dovuto fare, ovviamente, è stata abbandonare i panni dell‟autrice del libro e prepararmi a trattare la storia come un soggetto cinematografico.
I problemi da affrontare e risolvere erano di diverse nature.
Innanzitutto il “perimetro”. Un libro può espandersi a suo piacimento, una sceneggiatura ha una gabbia ben determinata, standard, per così dire. E improvvisamente, per quanto un libro possa sembrare “già pronto per lo schermo”, ti rendi conto che in quella stanza non ci entreranno né tutte quelle persone né tutti i loro bagagli. È proprio, e letteralmente, un problema di “spazio”. Perciò qualcuno e qualcosa non parteciperà alla festa. È inevitabile.
Quando ti rendi conto che dovrai fare questa selezione, ti trovi a dare una logica alle esclusioni o, meglio, a dare un senso, una regola, a quelli che invece “entrano”. Perciò cominci a ragionare non solo sul senso del film, che deve essere il più possibile attinente al senso del libro, ma alle pietre miliari, ai “paletti”, attraverso i quali, grazie ai quali, si snoderà la tua storia.
Questo ti porta inevitabilmente a creare due nuove distinzioni rispetto al libro. Prima di tutto il “punto di vista”, fondamentale in una narrazione cinematografica e così diverso dall‟io onniscente che il libro consente all‟autore. La macchina da presa, invece, nel momento in cui la prendi in considerazione, ti vincola a un rigore molto più forte. Il libro, per così dire, è più anarchico, il film più strutturato. La seconda distinzione che bisogna poi fare, nella quale ti imbatti tuo malgrado, è che ti rendi conto che nel libro i tuoi personaggi “pensavano ad alta voce”. E in particolare nel mio romanzo Andrea e tutti gli altri avevano una storia vissuta tutta “dall‟interno”. Ecco allora la necessità di esteriorizzare, di portare “fuori” quel mondo interiore.
Nel passaggio dal libro alla celluloide, quindi, il percorso dei protagonisti è stato riscritto in modo tale che il loro percorso emotivo venisse raccontato attraverso le loro azioni e – molto più importante - attraverso le loro contraddizioni.
La scrittura del film è stata volutamente spinta proprio alla ricerca di quelle contraddizioni che erano parte integrante dei nostri personaggi. Andrea, come Livia, o Cristina – la madre di Andrea -, sono persone che non parlano, che sono abituate a dire solo quello che li fa sentire più sicuri ma che quasi sempre è l‟esatto contrario di ciò che provano. Abbiamo lavorato per quasi un anno e mezzo cercando di costruire una sceneggiatura che si reggesse e si fondasse proprio su questa contraddizione, su questa tensione narrativa: su personaggi che mentono senza consapevolezza – e senza la minima volontà di mutare lo stato delle cose - e sulla progressiva caduta dei veli che camuffano le loro bugie.
Non è stato facile proprio perché, più che in altri film, in questo caso sapevamo che la scrittura sarebbe risultata efficace solo in fase di ripresa e solo se messa nelle mani degli attori giusti, capaci di rendere il “non detto”. Se all‟inizio del film il fuoco della scena è sempre altrove, a mano a mano che la storia procede, il cuore delle battute diventa sempre più il centro delle “inevitabili” confessioni dei nostri personaggi. Che sono, più che confessioni all‟altro, confessioni a se stesso.
E il motore di questa rivoluzione, l‟involontario deus ex machina, è il piccolo Charlie. Diverso, in tutti i sensi, non solo perché bambino e non adulto, nero e non bianco, ma soprattutto puro e non mascherato. È, per così dire, il grimaldello che apre tutte le porte di protezione che i personaggi hanno chiuso intorno a se stessi, come una inespugnabile fortezza. Ma anche, in definitiva, una terribile gabbia. Charlie, semplicemente per quel che è, scardinerà le loro vite. False. Farà emergere valori fino a quel momento inespressi, sotterrati sotto cumuli di “teatro concordato”, di mute regole. Curerà una patologia dei personaggi. Li costringerà a fare i conti con i propri segreti, con le proprie paure, con le proprie fragilità. E con quelle dell‟altro. E degli altri. È come un risveglio, seppur tardivo. Come se Andrea e Livia, in special modo, uscissero dal loro bozzolo, come se smettessero di rimanere rannicchiati su se stessi, come dei feti cresciuti, e riuscissero a guardare davanti a sé, intorno a sé. Come se riuscissero a vedere se stessi e gli altri per quello che sono e non come le proiezioni mentali di un loro ragionamento.
Questo processo passerà attraverso l‟ammissione del proprio dolore e quindi attraverso una lenta trasformazione che li porterà a non nascondersi più dietro le proprie bugie ma a mostrarsi con le proprie nude verità.
Un libro che genera un film che a sua volta genera un altro libro. Non è accaduto spesso, credo. Sono felice che sia accaduto a noi. Quando sono entrata in contatto con Gianfranco Morino in Africa, e ho assistito al suo impegno ventennale nel prodigarsi per la gente di quel paese, ho capito che avevo bisogno di restituire qualcosa a chi mi aveva dato così tanto mentre scrivevo il mio libro, e che da quel momento in poi non sarebbe stato più possibile per me fare come avevo fatto fino a quel momento e come tanti di noi fanno: provare solidarietà e compassione e poi voltare il viso da un'altra parte.
Le Avventure di FISHANDCHIPS sono nate con l'unico scopo di raccogliere fondi per aiutare Gianfranco a finire di costruire il Neema Hospital a Kibera, una delle baraccopoli più popolose e disastrate di Nairobi. Nella storia di Un Altro Mondo c'era un bambino che trascinava con se il suo perenne alter-ego: un dinosauro arancione spelacchiato e pieno di scuciture. Ed ho pensato che la conseguenza logica fosse che quel dinosauro mi aiutasse a raggranellare gli aiuti che dovevano servire ad altri bambini, e non solo a loro. Ho scritto le sue avventure e adesso tocca a lui. E alle persone che vorranno aiutarci.
Carla Vangelista21/12/2010, 13:54