Note di regia del film "La-Bas"
Un ragazzo di colore vende fazzoletti al semaforo. È lì da un giorno oppure da anni. Come tutti quelli come lui, si “arrangia”, come si dice a Napoli e come loro stessi amano ripetere. Magari domani qualcuno gli si avvicinerà per chiedergli: invece d’impiegare una giornata a guadagnare 10 euro, che ne dici di guadagnarne 100 in un’ora?
Al mio protagonista, Yssouf, viene posta questa domanda. E lui compie la scelta che gli appare più razionale. Ha un’ occasione per realizzare il suo sogno, quello che lo ha spinto ad intraprendere il viaggio che lo ha condotto là-bas, laggiù, come un africano chiama l’Europa immaginandola come un luogo lontano da casa propria. Per poi scoprire che qui, a Castel Volturno, è un po’ come stare in Africa: ci sono le palme, il sole picchia, la sera è pieno di zanzare e soprattutto non c’è lavoro. No, non c’è un lavoro vero per i clandestini. In questa terra un tempo meta di villeggiatura, oggi abbandonata dai turisti, ingombra di villette dall’architettura improbabile, l’unica alternativa è tra lo sfruttamento e il crimine.
E’ di queste persone e di questa scelta che parla il mio film. La scelta più razionale è talmente razionale che sono in molti a farla, e quando si è in molti alla stessa tavola si finisce per contendersi le briciole. Perchè nella zona di Castel Volturno non vivono solo ventimila africani, di cui almeno la metà clandestini, ma anche alcuni italiani che hanno fatto la stessa scelta. Per molti anni africani e italiani, neri e bianchi sono stati in pace. Una pace basata sulla spartizione degli affari, a volte sulla complicità, con i primi disposti a pagare ai secondi una sorta di servitù, un “equo canone”. Ma una pace esposta a terribili cortocircuiti come quello del 18 settembre 2008: con i suoi sei ragazzi innocenti ammazzati in una sartoria. Persone capitate lì per caso, la cui morte doveva servire, in un folle disegno criminale, a lanciare un messaggio, un avvertimento mafioso. Un episodio di rara violenza, una strage appunto. Che è capitata mentre scrivevo la mia storia, con tutto il suo carico di ineludibilità.
Guido Lombardi