Intervista a Luca Pastore, regista di "Freakbeat"
Non è semplice dare una definizione del Beat, soprattutto se si vuole andare al di là della sua connotazione strettamente musicale. Cos’è il Beat o meglio il fenomeno Beat per te?
Al di là del fatto che 'beat' è un termine talmente ampio da riuscire ad includere Allen Ginsber, Gregory Corso e Caterina Caselli, per quanto mi riguarda non è altro che una delle etichette che ciclicamente si danno all'eterno sforzo che ogni generazione fa per ribellarsi alla precedente e per chiedere un mondo diverso e possibilmente migliore. In questo senso, pur essendo nella sua accezione più 'alta' un importante fenomeno culturale e in quella meno intellettuale un semplice fatto di costume, ha delle fortissime connotazioni generazionali, così come il punk (che non è stato assolutamente solo un fatto musicale od estetico). Beat è una forma di ribellione particolare, basata principalmente sulla fantasia e la condivisione, tanto quanto il punk era basato sul nichilismo e sull'isolazionismo. Per me si tratta di movimenti artistici in tutto e per tutto, importanti esattamente come il futurismo, il surrealismo o la pop-art, anche se la critica d'arte 'ufficiale' non si è quasi mai occupata di questi fenomeni, relegandoli appunto al costume o alla sociologia.
Come è nata l’idea di "Freakbeat"?
Prima di tutto mi è stato proposto di fare un documentario sul beat in Emilia, che è la culla del beat italiano. Inizialmente ho cercato di immaginare più un 'documentario-beat' che un documentario 'sul' beat. Alla fine il lavoro si è sviluppato verso un film che è difficile definire ancora 'documentario', e il cui soggetto non è neanche più il beat vero e proprio ma piuttosto l'anticonformismo e il bisogno di immaginazione e di non-omologazione che ogni generazione cerca di esprimere, il tutto raccontato con la massima leggerezza possibile, senza riflessioni socioantropologiche o storicismi. Alla fine abbiamo raccontato, insieme a Claudio Piersanti che ha sceneggiato il film, una piccola storia paradossale e 'fuori tempo', sullo sfondo di una realtà così arida e cinica come quella che ci tocca di vivere oggi. Il beat è diventato un sottotesto/sottofondo, un sogno/pretesto per raccontare di uno spaesamento, di un rifiuto di diventare 'adulti', di una incapacità di adattamento, di un tentativo di ritrovare frammenti di umanità, di un bisogno di sognare e ricordare. Abbiamo cercato di sfiorare questi temi attraverso un viaggio né eroico né denso di avvenimenti fondamentali, frammentario, a volte un pò surreale, altre volte semplicemente normale.
Qual è l’eredità più grande che ci ha lasciato il Beat in Italia?
Il beat in Italia è stato sopratutto un fenomeno di costume, quasi totalmente privo della profondità culturale che ha avuto negli Stati Uniti, a parte pochissime eccezioni. Eppure nonostante ciò è stato dirompente, ha segnato forse per la prima volta una globalizzazione del concetto di 'cultura giovanile' che fino ad allora era sconosciuto nel nostro paese. L'Italia era un paese bigotto e clericale: il beat ha portato la liberazione sessuale, il femminismo, il pacifismo. Il beat italiano è forse, nel bene e nel male, il segnale più forte del passaggio da un'Italia arretrata e povera ad un paese più consapevole. Nel bene, perché questo fenomeno ha aperto la strada alle grandi trasformazioni culturali e politiche degli anni '70; nel male perché ha aperto la strada ad un consumismo di nuova generazione, non più limitato ai beni primari ma basato su bisogni nuovi, culturali, estetici, etc..
Quanto ha contato in Freakbeat il fatto che tu stesso sei un musicista? E come musicista anche tu devi qualcosa al Beat?
'Musicista' nel mio caso è una parola grossa... Io vengo dal punk, e la mia idea di musica si basa principalmente sul rumore puro, sull'aggressione sonora. Il punk deve ovviamente molto al beat, perlomeno sul piano del bisogno di sovvertire le regole. Intanto entrambi i movimenti avevano un'uniforme: i capelli lunghi nel beat e cortissimi nel punk; i vestiti colorati nel beat e il nero assoluto nel punk. L'apparente antitesi si spiega col fatto che i beatniks si sono ribellati ai loro genitori che vestivano di grigio e portavano i capelli corti, mentre i punks si sono ribellati ai loro genitori 'capelloni', e quindi si sono rapati i capelli... Anche musicalmente il punk è figlio del beat: ci sono molti gruppi dell'epoca beat che sono a tutti gli effetti protopunk, la non necessità di saper suonare 'bene' è un elemento che li avvicina. Gli stessi Beatles, ammesso che li si possa definire beat, hanno elementi di anarchismo sonoro assolutamente coraggiosi, specie sui lavori più sperimentali ('White Album' su tutti). Ma per il film il campo era ristretto al beat italiano, molto più 'educato'. Devo confessare che non avevo mai esplorato molto il beat italiano, ma devo dire che sono rimasto in qualche caso folgorato da alcune cose che ho sentito o che ho risentito con maggiore attenzione alla luce del lavoro che si stava facendo.
Perché hai scelto Freak Antoni come protagonista principale? E qual è stato il suo contributo durante la ricerca e la scelta dei materiali?
Freak, al di là di essere stato un punk sui generis ed un vero figlio del beat (sia musicalmente che culturalmente, visto che il suo stile come scrittore ha più di un punto di contatto con la Beat Generation), incarna perfettamente il concetto di non-conformismo e rappresenta un prototipo intelligente, ironico e molto personale, di 'ribelle'. E' davvero un 'teppista soffice', come si autodefinisce. Inoltre ha un'età anagrafica perfetta per fare il 'padre infantile', il genitore contro il quale, per quanto ci si sforzi, è quasi impossibile ribellarsi. Era quindi il soggetto perfetto per interpretare il ruolo di un padre con pelliccia e occhialini psichedelici che trascina la sua figlia part-time nella ricerca di una session perduta fra l'Equipe84 e Jimi Hendrix: non credo che ci fossero molti altri personaggi con quel fisique du role... Il suo contributo, più che sulla scelta dei materiali (ce ne sono pochi nel film, ma scelti accuratamente), si è sviluppato sul piano direi 'filosofico', nel senso che la sua esperienza personale e la sua provenienza culturale gli consentivano di sviluppare in modo naturale i concetti e le parole-chiave sulle quali si basava il film.
Hai avuto particolari difficoltà durante la lavorazione del documentario? E’ stato semplice, ad esempio, eseguire le ricerche, recuperare il materiale e parlare con i personaggi che hanno fatto la storia del beat emiliano?
Sinceramente direi che questa è stata invece la parte più semplice, anche perché le lunghe interviste realizzate e in generale la parte storico-documentaristica è stata quasi completamente eliminata in sede di montaggio (a questo proposito non escludo che questo materiale possa essere recuperato in futuro per un documentario più 'classico'). Le difficoltà maggiori in un lavoro come questo, nel quale si ha voglia di sperimentare e di correre rischi artistici e produttivi, sono quelle legate alle risorse, ai giorni di ripresa, agli aspetti logistici. Quasi mai, quando si cerca di percorrere una strada non troppo scontata, lo si fa con il paracadute sulla schiena. Devo però dire che il lavoro è stato molto piacevole, e in rapporto al donchisciottismo del progetto (il film è 'utopico' come il beat...) anche molto confortevole: da questo punto di vista devo ringraziare la produzione, perché impegnarsi in questo genere di progetti, di questi tempi, lasciando libertà artistica agli autori e allestendo comunque una struttura efficiente, è davvero raro. Poi, ovvio, sarebbe bello avere più possibilità e quindi poter curare di più le cose.
In questo road movie attraverso i luoghi storici del beat emiliano e i vari protagonisti dell’epoca, qual è l’episodio / l’incontro che maggiormente ti ha emozionato?
Tutti i personaggi sono stati di una disponibilità e di una gentilezza assolute: spero che il film non li deluda troppo, visto che li abbiamo 'usati' al di fuori del contesto che forse si sarebbero aspettati. Comunque l'incontro più importante è stato senz'altro quello con Freak, che non conoscevo personalmente e che per molti motivi è diventato uno dei miei eroi.
Come definiresti il tuo film che usa un linguaggio al confine tra il documentario, il cinema di finzione e il videoclip musicale?
Odio le definizioni: so che molti lo definirebbero una 'docufiction', cosa che un pò mi raccapriccia... E' un film, e mi piacerebbe che tutti i film fossero definiti semplicemente 'film', al di là delle percentuali di finzione, documentario, videoarte, videoclip, etc. etc. che contengono: magari così ci si abituerebbe a vedere tutto senza filtri, e non sarebbe più così difficile andare al cinema e vedere opere diverse fra loro per forma, sostanza, linguaggi, generi...
Cosa ne pensi del documentario oggi in Italia?
Il documentario sta diventando sempre meno 'documentario', nel senso che è sempre meno incasellabile e classificabile, e questo è un gran bene. Ora però sarebbe bello che se ne accorgesse anche il pubblico, che in gran parte quando sente la parola 'documentario' pensa ancora allo Speciale TG2, o alle immagini dei Masai che saltano, con una voce fuori campo più o meno impostata che ne descrive le abitudini alimentari o socioculturali. Io credo che intanto la definizione di 'cinema del reale' sia un pò più vicina a quello che molti autori anche giovani stanno cercando di fare. Credo che la commistione di linguaggi e la sperimentazione siano una grande risorsa per il cinema in generale, non solo per il genere documentario, e possano portare una ventata di novità riportando il cinema fuori dal 'precotto'. Oggi se vai al cinema, nel 99% dei casi (al di là del valore scarso o altissimo di quello che vedi) sai già in partenza che il linguaggio, il modo di raccontare, sarà quello classico del cinema di finzione: io credo che qualche sorpresa, nel bene e nel male, sarebbe molto ben accetta dal pubblico. Credo che sviluppare la produzione indipendente e diffondere generi diversi dalla fiction tradizionale sarebbe poco costoso e molto remunerativo, in primo luogo in termini di immagine e di attrattiva per un paese che oramai è identificato, all'estero, come creativamente quasi sterile (e per un paese che ha nel turismo e quindi nell'immagine una delle sue risorse principali, è davvero un bel danno). Il problema, e qua mi dà fastidio dire una banalità, ma è così, è che nessuno investe sulla possibilità che il portare al rango di 'film' anche prodotti diversissimi tra loro possa rivelarsi fruttuosa: nessuno o quasi in definitiva scommette sull'intelligenza dello spettatore. Per quanto riguarda la televisione intesa come networks, è oramai persino inutile parlarne... Ne consegue che in una situazione distributiva di questo genere, con porte blindatissime sbarrate per tutto ciò che è 'sperimentale' o indipendente, è difficile aspettarsi che la produzione fiorisca... Come tutti sanno bene, le poche e piccole produzioni che riescono a svilupparsi in ambito indipendente si appoggiano su risorse in parte o del tutto pubbliche: e anche qua, vista l'aria che tira, non me la sento di essere troppo ottimista.
La tua casa di produzione, la Legovideo, fondata insieme ad Alessandro Cocito, opera da più di 20 anni nel campo della comunicazione audiovisiva, lavorando in molteplici ambiti dai documentari di creazione ai contributi e sigle per la televisione, dai videoclip alle video-installazioni per musei e concerti, fino alla comunicazione istituzionale e per le aziende. Quali sono gli obiettivi che vi siete prefissi?
Principalmente quello di sopravvivere, facendo possibilmente cose che ci soddisfino... anche se non sempre è possibile.
15/11/2011, 22:03