"Penultimo Paesaggio" - L'esigenza di
tornare a un cinema senza storie
"
Penultimo paesaggio" è, più di ogni altra cosa, un film di scelte. Il regista
Fabrizio Ferraro è troppo esperto di cinema per commettere errori; il ritmo, la lunghezza delle inquadrature, la quasi assenza di dialoghi, la mancanza di sovrapposizione degli elementi cinematografici. Tutto è voluto e scelto con cura.
Un film che fugge dall'impertinenza dell'ovvio dove i silenzi e il chiasso esaltano l'intima alienazione urbana. La città non è
Parigi, non è una città, non è la terra; è una scenografia vuota e immobile davanti alla quale si agitano composti i personaggi, come in una palla di vetro piena di acqua sporca, ingenua e onesta.
Il tempo, il nostro tempo, sembra sprecato in ricerche ormai vane, in attesa di qualcosa che è già avvenuto e che, sappiamo, non accadrà mai più.
Lo skyline è sempre in agguato alle spalle dei personaggi, pronto a saltare, tra le grida della gente, e a ingoiarli prima che essi stessi aprano bocca.
Qualcosa non va; le urla crescono e l'immagine si trasforma in movimento, la scenografia in coreografia, il piacere in disagio, un eccitante appuntamento al buio in una sequenza di scene da un matrimonio.
"Che cosa c'è di interessante da riprendere in questo vicolo" chiede una donna che entra per caso nell'inquadratura. Niente, tranne il passaggio di un protagonista misterioso. O soltanto vuoto. I solchi sul suo viso sono rughe o sono i viali che, pieni di significati, attraversano Parigi?
In "
Penultimo Passaggio", le immagini sono immagini, i suoni sono suoni, i concetti sono concetti; e
Fabrizio Ferraro ha svolto un lavoro enorme e meticoloso per riuscire a tenere tutto, per scelta, ordinatamente separato.
11/12/2011, 11:00
Stefano Amadio