L'eclettismo artistico di Yuri Ancarani
Al Filmforum
Yuri Ancarani ha aperto il proprio cuore, condividendo con la platea in maniera molto schietta non solo i tratti delle sue opere, ma anche la sua personale concezione della Settima Arte.
Cercare di definire il talentuoso artista ravennate, così poliedrico e profondamente coinvolto nella contaminazione tra cinema e arte contemporanea, tentando di
etichettarlo in maniera univoca non è così semplice. Di questo dualismo è ben consapevole lo stesso Ancarani, che, anzi, pare proprio ricercarlo poiché gli permetterebbe di dare una forma migliore alle proprie sensazioni gestendo anche le questioni meramente economiche.
“Produrre in Italia è molto complicato, i tempi per i finanziamenti sono astronomici.
Ho assaggiato i due mondi – quello dell'arte e quello del cinema – e tento di prendere il meglio dei due. I meccanismi di finanziamento delle mie opere sono quelle dell'arte mentre la tempistica e la modalità di produzione si avvicinano al cinema”.
Definizioni a parte, le sue opere, che approdano non solo ai festival cinematografici ma anche nelle gallerie d'arte, rappresentano
virtuosi esempi di quella nuova cinematografia italiana che - proprio perché intrisa d'arte -
si distingue parecchio dalla cosiddetta forma espressiva più tradizionale, ma sembrano pure confermare il fatto che una boccata d'aria fresca sia finalmente entrata nel panorama cinematografico nostrano.
Anche se, come egli stesso ricorda, forse proprio perché non aderivano completamente ad una classificazione precisa, queste inizialmente erano state
definite da alcuni produttori “un prodotto che non si sapeva bene dove posizionare”, ignorando probabilmente il potenziale artistico e il grande riscontro che avrebbero riscosso tra i critici e gli spettatori.
Consenso che non è tardato ad arrivare nemmeno a Gorizia, dove
ha presentato “Piattaforma Luna”, “Il capo”, “Arance*Mantra” e “Made in Italy”, opere in realtà molto diverse tra loro: se infatti agli inizi Ancarani ideava i corti organizzando un happening - il provocatorio striscione con le scritte in cinese che sorvola la riviera romagnola gremita di bagnanti a Ferragosto che si vede in Made in Italy ne è un palese esempio - ora preferisce di gran lunga osservare le cose piuttosto che programmarle.
“
M'interessano sopratutto gli scenari, anche estremi: quando c'è un'ambientazione straordinaria ci sono anche delle storie eccezionali al suo interno. Spesso i miei film nascono da sopralluoghi: cerco un luogo, faccio degli incontri, poi penso alle mie interpretazioni di cosa vedo e così trovo le storie”.
Lo sguardo è incentrato su delle peculiari situazioni del reale come le grandi fabbriche o le piattaforme off-shore per l'estrazione dei combustibili,
ambienti dove lo spettatore difficilmente riuscirebbe a scorgere della poesia. Ne “Il capo”, ad esempio, l'obiettivo si sofferma sulle geometrie naturali delle venature dei bianchissimi banchi di marmo, sulla bizzarra danza meccanica dei bulldozer ma soprattutto sulla grazia delle movenze del capo cantiere che, costretto ad esprimersi solo a gesti a causa del frastuono dell'ambiente di lavoro, sembra quasi un direttore impegnato a dirigere un'orchestra sinfonica.
Esteta e perfezionista dell'immagine, cerca di controllare tutto attraverso il background: quando gli si chiede il motivo di una tale meticolosità nelle inquadrature e come mai la musica, al contrario delle immagini e dei suoni, ricopra una parte marginale nelle sue opere spiega che, paradossalmente essendo non vedente, il suo maestro di cinema è proprio il suo fonico, che ha alle spalle centinaia di film, e col quale condivide la convinzione secondo la quale il suono per riuscire a conferire tridimensionalità alle immagini debba funzionare a prescindere, anche senza immagini, e soprattutto emozionare.
“Ho iniziato a fare riprese come videomaker con le telecamerine di plastica che ti danno la possibilità di fare tutto a basso costo: ma ottenevo una qualità di immagini bassa, senza mai un'inquadratura generale e i busti erano sempre a metà. Non mi sentivo pienamente appagato: mancava qualcosa, come nei videoclip dove solitamente si utilizza la musica per sopperire a questa mancanza”.
Al contrario, “
quando hai un immagine di qualità non ti manca più niente e puoi permetterti di togliere tutto, persino il montaggio e la musica. E sto molto attento a usarla perché spesso nel cinema è usata come contentino finale dato al pubblico quando non si ha granché da dire ma si vuole farlo uscire comunque soddisfatto dalla sala”.
Per queste ragioni,
Yuri Ancarani oggi incentra il suo lavoro sulla stazionarietà della macchina da presa, adottando una chiave di pensiero che si avvicina più a quella di un fotografo dell'architettura che di un cineasta e ciò inevitabilmente ha cambiato pure le sue opere. “Ho la fortuna di avere come produttore Cattelan, che è un'artista e mi dice sempre che il lavoro va salvaguardato”. Un fatto decisamente non marginale.
Martina Bigotto06/04/2012, 12:49