AT THE END OF THE DAY - A volte ritornano
Durante una partita di soft air, una specie di simulazione della guerra con armi ad aria compressa e proiettili di plastica, un gruppo di giovani si avventura in un bosco all’apparenza innocuo. Il divertimento viene interrotto da un banale incidente, un cane finisce sotto le ruote del fuoristrada sul quale i ragazzi stanno viaggiando.
Da quel momento inizia l’incubo.
La caccia e la guerra che fino ad allora erano state un gioco diventano reali, spuntano improvvisamente tre sconosciuti con armi vere che si aggirano nel bosco armati fino ai denti.
“At the end of the day” è, come lo definisce il suo regista Cosimo Alemà,
un “horror metafisico”, una spietata lotta tra il cacciatore e la preda. Ispirato visivamente ad “Un tranquillo weekend di paura” è
l’esordio di un autore che si è fatto le ossa nel video clip per anni con i maggiori artisti della scena italiana.
Siamo nell’archetipo trash del bosco e del gruppo di giovani minacciati da una forza oscura e violenta. Inquietante e spaventosa la comparsa improvvisa dei tre giustizieri che vivono sottoterra in una specie di base militare abbandonata. Nella pellicola si intrecciano progressivamente
varie influenze cinematografiche che vanno dal western allo splatter degli anni’80, unite da uno stile di regia veloce e serrato.
La storia e la sceneggiatura inesistenti sono
sostenute da una serie di clichè e citazioni di cinema di serie B, riportate ai nostri giorni ed esaltate da tecnologie di ripresa ad alta definizione, usate in maniera tecnicamente eccellente.
Film crudo, sadico e ruvido nella sua semplicità di struttura, mostra la morte nella sua lenta agonia, disturbando lo spettatore con dettagli e soffermandosi sulla banalità del corpo massacrato e martoriato.
Interessante l’ambientazione della vicenda che si svolge tutta in esterni con luce diurna e con colori molto densi e caldi.
Uno dei pregi maggiori del film è infatti proprio la sua qualità fotografica.
La scelta di Alemà è molto coraggiosa e va premiata la sua volontà di dirigere un film di genere che possa funzionare anche su mercati esteri, lontano dagli standard produttivi e distributivi del cinema nostrano.
Tutti gli attori sono anglofoni, come nei migliori film di Lucio Fulci, facce truci, anglosassoni, adatte ad un incubo da sottobosco e balestra.
27/10/2012, 09:00
Duccio Ricciardelli