MARCO VISALBERGHI - Una vittoria frutto di una serie di maturazioni
Tanti i maestri del cinema in concorso alla 70a Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, da Gianni Amelio con "L'intrepido" ad Hayao Miyazaki con "Kaze Tachinu", da Amos Gitai con "Ana Arabia" a Terry Gilliam, autore di "The zero theorem".
A spuntarla è invece il maestro che non ti aspetti. Si, perchè
Gianfranco Rosi, autore di "Below Sea Level" e "El Sicario Room 164", l'appellativo di "maestro del documentario" se lo merita tutto, e la vittoria del suo "
Sacro GRA" ne è solo l'ulteriore conferma.
A guidare con saggezza e coraggio il lavoro di Rosi è stato
Marco Visalberghi, che con la sua "Doclab" ha sostenuto fin dall'inizio il regista italo-eritreo, affascinato dalla possibilità di collaborare con uno dei migliori talenti del nostro cinema.
In un'intervista esclusiva a Cinemaitaliano.info, Visalberghi racconta i segreti del successo.
Dietro al successo veneziano di "Sacro GRA", ci sono tre lunghi anni di lavoro. Da dove è cominciato il viaggio tuo e di Rosi?
Ogni progetto ha una sua storia particolare e quella che riguarda questo film ha degli aspetti stravaganti. Una montatrice italo-franco-americana che aveva una casa in Via Panisperna, conobbe l'urbanista Nicolò Bassetti che le riempì la testa di informazioni sul Grande Raccordo Anulare, tanto che si convinse che poteva uscirne fuori un soggetto per un film ad episodi diretto da cinque registi. Stiamo parlando di uno strano territorio che in realtà raccoglie quasi due milioni di persone, la grande maggioranza dei cittadini romani. La montatrice ne parlò con una produttrice francese che si disse interessata, e iniziarono a sviluppare il soggetto. A quel punto pensarono a me come co-produttore italiano, ma all'inizio ero molto scettico perchè il soggetto mi sembrava difficilissimo da acchiappare, perchè c'era dentro troppa roba e niente di specificatamente raccontabile. Un giorno, ragionando sul fatto che a me non convinceva l'idea dei cinque registi, lei tirò fuori il nome di Gianfranco Rosi. Io da poco avevo visto e apprezzato "Below sea level" e fui molto contento della scelta, perchè lo considero un autore capace di calarsi completamente nelle storie che racconta. Lo contattammo e l'idea lo interessò molto, nonostante fosse la prima volta che si trovava a lavorare "su commissione". All'inizio ebbe un atteggiamento un pò spaesato, ma poi iniziò ad andare in giro per il raccordo appassionandosi alla storia. Da li sono inziati poi i tre anni, ma questo film ha almeno altri sette o otto mesi precedenti di lavoro.
E' stato particolarmente complesso mettere insieme le forze per affrontare le spese di produzione?
Da un punto di vista produttivo è stata una storia abbastanza controcorrente, perchè nella mia vita ho sempre passato molto tempo a cercare i soldi per la parte italiana e mi trovavo magari ad avere metà del budget da televisioni estere e nulla dal nostro paese, mentre questa volta è stato l'inverso. Siamo partiti chiedendo il contributo al MiBAC e lo abbiamo ottenuto subito, forti di questo siamo passati da RaiCinema e Carlo Brancaleoni si è subito convinto e poi si sono aggiunti la Regione Lazio, il Tax Credit e la Roma e Lazio Film Commission. Paradossalmente è stata la Francia a trovare grossi problemi per mettere insieme il budget e dal 50% è scesa a poco più del 10%. Il film alla fine è costato poco più di 600.000 €.
Cosa ti affascinava maggiormente della periferia romana?
La cosa che mi ha affascinato molto è l'idea di raccontare una realtà che non viene mai presentata, o al massimo viene considerata per incidenti, criminalità e fatti di cronaca. La svolta vera e propria è stata l'arrivo di Rosi perchè la sua capacità di entrare a contatto con i suoi personaggi è più unica che rara. Questi due aspetti mi hanno convinto a credere nel progetto.
In occasione della passata edizione del Festival di Roma avevate presentato il corto di Rosi "Tanti futuri possibili. Con Renato Nicolini", che partiva proprio dalla produzione di "Sacro GRA". Da dove nacque l'idea?
Quello è stato un suggerimento pressante fatto da Marco Müller, perchè avevamo una lunga intervista fatta a Nicolini, uno dei punti di riferimento del lavoro preparatorio per il film, che però sapevamo che non avrebbe fatto parte della struttura narrativa. Quando il direttore di Roma ci ha parlato della sua volontà di fare un omaggio a Nicolini, ci è venuto in mente di estrapolare quel corto che rappresenta un vero e proprio spin-off.
La tua Doclab negli ultimi anni ha avuto una crescita qualitativa spaventosa, dai primissimi lavori nel doc storico o archeologico, fino alle collaborazioni con i più importanti autori contemporanei. Quale segreto si cela dietro?
A dire il vero, prima ancora, ho iniziato a lavorare come produttore nel campo del doc naturalistico e devo dire che per assurdo trovo una grande affinità tra il modo in cui Gianfranco filma i suoi personaggi e quello con cui si filmano gli animali nella Savana. Con gli animali in cattività devi portare avanti un gioco per farli abituare alla tua presenza e devi come sparire. Loro sanno che sei dentro a un capanno, e piano piano ti considerano paesaggio e ti accettano. Gianfranco fa esattamente la stessa cosa, passa intere settimane senza girare nulla, stabilendo con i suoi personaggi un rapporto simile fino a che qualcosa gli suggerisce di prendere la macchina da presa e loro non sembrano più recitare. C'è stata una grande evoluzione dagli animali a questo tipo di cinema. Credo molto agli incontri fortuiti, ma nel mio lavoro l'unica cosa costante è che ho rincorso le cose che in quel momento amavo di più, a prescindere dal tipo di storia.
Oltre a lavorare nel doc d'autore, collabori con Quark e ti occupi di documentari di stampo televisivo. Non trovi assurdo che oggi per molta gente il "documentario" rappresenti solo quel prodotto che è abituato a vedere nel piccolo schermo?
A parte che trovo assurda la distinzione tra cinema del reale e fiction, trovo ancora peggiore la distinzione tra generi diversi di documentario. Perchè non cominciamo a dire che sono tutti racconti per immagini. Che poi la storia sia archeologica o sociale non interessa, le distinzioni vengono fatte perchè in tv i lavori vengono inscatolati in programmi tematici, ma sono tutti racconti che usano gli stessi strumenti, immagini e suoni.
Dopo la partecipazione in concorso e la vittoria de "La bocca del lupo" di Pietro Marcello a Torino, "Sacro GRA" vince il Leone d'Oro a Venezia facendo impazzire di gioia i documentaristi di tutta Italia. Credi che possa essere finalmente la volta buona per far considerare il documentario come un prodotto di serie A, con la stessa dignità della fiction?
Ne sono assolutamente sicuro. Questa tendenza l'abbiamo vista negli ultimi anni affermarsi all'estero, ma pian piano anche nel nostro Paese. Con tutta l'umiltà del caso ritengo che questa nostra vittoria sia merito di Gianfranco e del concretizzarsi di una serie di maturazioni generali, come il coraggio di Barbera e la straordinaria libertà intellettuale di Bernardo Bertolucci. E' qualcosa che lascia il segno e i documentaristi fanno bene a tripudiare perchè non sarà possibile tornare indietro. Io sono stupito del fatto che ci sia qualcuno che ha dichiarato che questa sia una chiusura del festival su un prodotto di nicchia. Questo vuol dire che ti passa vicino la rivoluzione e non ti accorgi che il mondo sta cambiando. E' invece un'immensa apertura che non toglie nulla alla grande poesia del cinema di fiction e permette di allargare gli orizzonti, anche perchè da anni la fiction prende a prestito stilemi e trucchi del doc per cercare di recuperare quel patto di realtà con il pubblico e usarlo come forma narrativa. Finalmente siamo tutti sotto la settima arte, facciamola finita con i recinti.
12/09/2013, 08:00
Antonio Capellupo