THE STONE RIVER - La memoria dolorosa della pietra
Nella Biblioteca del Congresso Americano a Washington sono conservati i testi che fra il 1938 e il 1940, nel periodo della Grande Depressione, furono raccolti da un gruppo di scrittori inviati da Roosevelt nell’ambito del
Federal Writers Project. Autori come Steinbeck e Bellow furono incaricati di intervistare e di raccogliere le memorie dell’intero paese per avere un quadro sociale ed economico degli Stati Uniti.
Giovanni Donfrancesco nel documentario
The Stone River utilizza proprio questi testi, ed in particolar modo si concentra sui lavoratori di granito della città di Barre nel Vermont. La maggior parte di coloro che furono intervistati durante questa inchiesta governativa sono morti di silicosi e sono sepolti nel cimitero di Hope, proprio nel villaggio di Barre.
Il regista fa leggere i testi agli abitanti di Barre di oggi, con un’operazione di interessante sovrapposizione tra passato e presente, saltando continuamente tra la finzione della recitazione e il ritorno all’immagine della realtà quotidiana.
Un film di paesaggi e di volti questo documentario nel quale la voce fuori campo assume un’importanza fondamentale, veicolando continuamente aneddoti, storie personali e testimonianze storiche.
Una storia dolorosa di artigiani e scultori, raccontata con una fotografia secca e precisa, alle volte quasi fredda ed analitica ma sempre alla ricerca di una luce che “racconta” spesso più del testo.
Il paesaggio del Vermont di oggi conserva ancora i segni della vita dura degli scalpellini degli anni '30 e '40. Le morti sul lavoro, le cave che sembrano labirinti danteschi incisi nella roccia, la neve e il passare delle stagioni accompagnano dall’inizio alla fine i tanti volti degli abitanti di Hope moderna.
A volte il regista gioca con ironia sulla discrepanza tra il testo, il gesto e l’ambientazione attuale dei “personaggi”, li fa uscire ed entrare dalla finzione, con molti sguardi in camera e molta attenzione al quotidiano.
Si procede per quadri quasi sempre fissi e precisi, escluse alcune scene di “pedinamento” riprese a spalla, in cui si sta attaccati in grandangolo al personaggio per esaltare prospettive distorte e surreali degli interni. A metà documentario si ritorna in Italia, si vedono due ruspe che come due dinosauri meccanici di
herzoghiana memoria stanno lavorando in una cava di Carrara.
Tutto l’episodio centrale è senza parole, parlano solo le immagini, si vedono le firme degli artisti del Rinascimento che hanno preso da quelle cave il marmo per i loro capolavori, poi in una penombra misteriosa e sognante appaiono
i Prigioni di Michelangelo, esseri rimasti immobili nella materia, in attesa di una liberazione che non avverrà mai.
Si torna ora di nuovo nel Vermont; in questa parte si ha come l’impressione che lo sguardo di Donfrancesco diventi sempre più metafisico, astratto, geometrico anche nel raccontare l’alternanza di volti e paesaggio. Il film ora è anche la zona della dualità e di una visione quasi manichea della realtà di Barre: un personaggio afferma che il granito non è marmo, a Barre si era o socialisti o anarchici e ci si sparava come nei film western, a Barre si poteva essere o cavatori o contadini, non c’erano altre scelte.
The Stone River fa venire alla mente una ballata di Edgar Lee Masters ma senza speranza, un territorio fantasma dove ormai l’umanità non può fare altro che scolpire nella roccia le lapidi per il cimitero di Hope. Un coro alla fine del film sembra accendere una speranza nella comunità di Barre, tutta la popolazione si riunisce per intonare dei canti tradizionali molto toccanti.
Da brivido l’ultima scena con la sovrapposizione tra il totale dell’ambiente moderno e le foto dei cavatori del passato, ritratti in un bianco e nero quasi spettrale. Finora abbiamo ascoltato persone reali o quei volti ripresi a Hope erano già fantasmi ingannatori e burloni?
23/04/2014, 09:38
Duccio Ricciardelli