Note di regia di "Carta Bianca"
Il progetto di Carta Bianca nasce nell’inverno del 2010, con la morte di un giovane immigrato, Sahid Belamel. La lettura del (provocatorio) necrologio pubblicato sul quotidiano La Nuova Ferrara mi ha smosso qualcosa dentro: «Ci ha lasciato nell’indifferenza generale dei passanti la mattina del 14 febbraio, festa di San Valentino. Abbandonato in agonia in via Colombo, è morto di freddo».
Anch’io sono un immigrato e, prima ancora, un essere umano – un essere umano come questo ragazzo che nessuno ha voluto aiutare mentre stava morendo per ipotermia sul ciglio di una strada, umano come gli automobilisti che gli sfrecciavano di fianco senza fermarsi. Mi sono chiesto: come è possibile che accadano episodi così tragici e assieme grotteschi? Cosa avrei pensato pochi secondi prima di morire se fossi stato al posto di Sahid? E ancora: al posto degli automobilisti, mi sarei fermato ad aiutarlo oppure avrei tirato dritto?
È anche per rispondere a queste domande che ho deciso di realizzare Carta Bianca. Un lungometraggio che, partendo dallo spunto di cronaca (quello di Sahid, ma anche di altri), raccontasse qualcosa sull’Italia di oggi e più in generale sul rapporto tra noi e gli altri, suggerendo riflessioni sulla natura umana.
Assieme allo sceneggiatore Andrea Zauli abbiamo messo in piedi tre storie forti, dure, attuali, dove tre personaggi (due stranieri e un’italiana) si incontrano e si scontrano. Nessuno lo sa, ma ciascuno cambierà la vita dell’altro. Le storie sono diversissime l’una dall’altra per il carattere dei tre protagonisti, per il registro visivo (la fotografia è curata da Maura Morales Bergmann, il cui corto A Chjàna ha vinto la sezione Controcampo Italiano a Venezia 2011), e per la maniera in cui si concludono. Sono invece accomunate:
sociologicamente dal tema dell’immigrazione clandestina, in particolare dal miracolo-miraggio del permesso di soggiorno. L’argomento della convivenza tra indigeni e allogeni è stato cruciale negli scorsi decenni e resterà attualissimo nei prossimi;
psicologicamente dalla solitudine e dall’indifferenza, raccontate come malattie della contemporaneità, veleni dell’anima peggiori persino del razzismo e della xenofobia;
spazialmente dalla cornice di Roma. Se tutte le strade portano a Roma, allora tutti, potenzialmente, possono arrivarci. Arrivare in Italia, quindi in Europa, nell’Occidente ancora opulento ma in realtà in grave affanno. Roma diventa così l’emblema di altre mille città, una vera caput mundi, nel bene e nel male. Quello che capita ai protagonisti del film può capitare a chiunque, in qualsiasi luogo del nostro Paese, in qualunque punto del pianeta.
temporalmente dalle circa venti ore nelle quali le storie si dipanano, tra la mattina di sabato e l’alba di domenica 14 febbraio (San Valentino).
narrativamente dagli snodi in cui le storie si intrecciano, illuminandosi e incendiandosi l’un l’altra.
Conoscendo la burocrazia italiana e per giunta non essendo italiano, non ho pensato neanche per un minuto di chiedere finanziamenti al Ministero dei Beni Culturali e ho optato per l’autoproduzione. Una specie di triplo salto mortale per un progetto con oltre trenta personaggi, cinquanta location e centoquaranta scene.
Autoproduzione non è però sinonimo di qualità mediocre: tutta la troupe è composta da professionisti del settore che hanno lavorato al film perché innamorati dell’idea di raccontare e lavorare con quella libertà narrativa e formale che il sistema cinetelevisivo italiano non permette. Inoltre abbiamo avuto a disposizione la tecnologia necessaria per un prodotto tecnicamente eccellente (per esempio, abbiamo usato per le riprese le stesse macchine digitali con le quali è stata girata l’ultima stagione di Dr. House). Autoproduzione significa che Carta Bianca è un esperimento cooperativo, dove ogni professionista (autori, attori, tecnici) non riceve un compenso, ma diviene co-proprietario del film e godrà vita natural durante degli utili da esso generati.
Da un lato Carta Bianca riflette il mondo così com’è, senza compromessi da fiction televisiva. Ogni personaggio parla la lingua che parlerebbe nella realtà: il maghrebino parla in francese col senegalese, in arabo quando riflette a voce alta e in italiano con gli altri stranieri; la moldava parla italiano con l’amica albanese e in moldavo con le allucinazioni che popolano la sua fantasia; gli italiani non parlano in modo foneticamente perfetto e dunque irrealistico, ciascuno possiede una cadenza dialettale. Dall’altro Carta Bianca suggerisce il mondo come vorremmo che fosse. Il realismo linguistico infatti non corrisponde alla rigida osservanza dei confini della nazionalità. Nel cast ci sono attrici italiane che interpretano personaggi dell’Europa dell’est, il milanese che sfoggia un accento pugliese, il tunisino che si finge marocchino. Quasi a irridere le ingessate regole della burocrazia internazionale.
Anche la troupe è variegata, mobile, transnazionale: io sono colombiano ma vivo a Roma da quando ho dodici anni, la montatrice è sudamericana come me ma lavora in Olanda, lo sceneggiatore è un romagnolo trapiantato a Roma, la web designer del sito (www.cartabiancafilm.com) oscilla tra Italia e Dubai, la direttrice della fotografia è italiana ma di sangue cileno e tedesco, e così via. Il telaio produttivo e artistico del film assomiglia un po’ all’Italia che vorremmo, dove ognuno offre agli altri il meglio delle proprie differenze, iscrivendole nella cornice di una visione comune, dove le persone (italiane e non) lavorano assieme per creare valore e ricchezza, cultura e solidarietà – una metafora dell’immigrazione come formidabile strumento per arricchire e svecchiare la società italiana.
Andrés Arce Maldonado