Note di regia del documentario "Un Minuto de Silencio"
Digressioni di viaggio, cinema e musica…
BABA CARAPA
Questa storia potrebbe iniziare su una barca che risale faticosamente la corrente del rio Beni, nella foresta amazzonica boliviana. Mi trovo lì per le riprese di un documentario, ma per associazione non posso evitare di pensare a un grande film e al suo tormentato protagonista, il capitano Willard, mentre risale un altro fiume, molto simile al mio, che dal Vietnam porta alla Cambogia. Il suo compito è quello di localizzare il colonnello Kurtz nel suo misterioso rifugio nel cuore della giungla, mettersi in contatto con lui… e “mettere fine al suo comando”, cioè ucciderlo.
Una missione “off the record”, un po’ come la mia, che questa volta mi trovo in Bolivia in incognito e mi fingo un normale turista.
“Apocalipse Now”, è sicuramente uno di quei film che rimarrà nell’immaginario collettivo della mia generazione. L’ho visto per la prima volta al cinema Odeon di Udine, una sala progettata negli anni trenta dal mio bisnonno Ettore Gilberti. Il film è del 1979: all’epoca avevo 16 anni. La colonna sonora è straordinaria, con due momenti indimenticabili: una formazione di elicotteri all’attacco al suono dalla “Cavalcata delle Valchirie” di Richard Wagner e la sequenza finale con “The end”, inimitabile rock psichedelico dei Doors. Ero ritornato a vederlo per ben tre volte in pochi giorni e forse è stato allora che ho cominciato a pensare alla potenza del cinema, senza immaginare che pochi anni dopo avrei preso anch’io quella strada.
Su quel fiume boliviano non ero certo in missione per uccidere, ma c’erano aspetti curiosi di quel viaggio e di quel momento che, con le dovute proporzioni, mi riportavano ai personaggi di Conrad. Il fiume si addentrava nella rainforest mentre sulle sponde si cominciavano a vedere scimmie rosse, capibara e altri animai esotici. Una specie di grosso fagiano molto colorato ci accompagnava con un verso sinistro… ma la colonna sonora ideale di quel momento sarebbe stata “I can’t get no satisfaction” dei Rolling Stones, come in un’altra scena sul fiume di “Apocalypse Now”.
È così quando qualcosa si guadagna l’immaginario…
Era il primo vero viaggio con Marina, in quel caso un po’ fidanzata e un po’ assistente, a circa sei mesi dal nostro incontro. Marina ha imparato lo spagnolo in Guatemala e lo parla molto meglio di me. Anche lei è una grande viaggiatrice, una donna con un passato interessante e avventuroso. Siamo due anime un po’ perse che hanno avuto la sorte d’incontrarsi in un momento di transizione verso una fase più matura della vita … oltre la linea d’ombra, come direbbe ancora Conrad.
Eravamo arrivati a Rurrenabaque qualche giorno prima, con un piccolo aereo traballante, partito da La Paz. Dovevamo incontrare un capo Tacana, una delle 34 “nazioni indigene” dell’Oriente boliviano, del quale ignoravamo tutto, anche il nome. Queste erano le istruzioni: si sarebbe fatto riconoscere lui, mi avrebbe fatto una domanda alla quale avrei dovuto rispondere «baba carapa».
Il motivo di questa complicata procedura era la cautela: quel capitolo del documentario raccontava i fatti drammatici dell’ottobre 2011, quando per la prima volta anche la stampa europea aveva criticato pesantemente il presidente Evo Morales accusandolo di aver “tradito il suo popolo”.
Sono stato in Bolivia sei volte tra il giugno 2008 e il dicembre 2011 e ho avvertito una graduale trasformazione: dall’entusiasmo di una rivoluzione socialista che consegnava il potere nelle mani di un presidente indigeno, ci si sta pericolosamente avviando verso una moderna dittatura, un regime capace di usare tutti gli strumenti, leciti e illeciti, per mantenere il potere. La marcia pacifica degli indigeni delle “terre basse” d’oriente che protestano per impedire la costruzione di un’autostrada in mezzo al parco nazionale del TIPNIS (Territorio Indígena y Parque Nacional Isiboro-Secure), è stata attaccata violentemente dal governo che ha cercato in tutti modi di impedire a oltre tremila indigeni partiti da Trinidad di raggiungere La Paz, dopo aver camminato per due mesi percorrendo più di mille chilometri.
Evo Morales ha promesso ai Cocaleros di cui ancora oggi, in pieno conflitto d’interessi, è il massimo rappresentante, di procurare nuovi territori da colonizzare per la coltivazione della coca. Oltre al fatto che sta violando pesantemente la nuova costituzione approvata con un referendum a larga maggioranza, Evo dimostra un’estrema tolleranza per il narcotraffico. La Bolivia produce oltre 28.000 tonnellate di coca mentre il consumo tradizionale non ne richiederebbe più di 8.000 e inoltre, la coca coltivata nel Chapare, che ha le foglie grandi e amare, non è adatta a essere masticata come quella coltivata nelle Yungas a sud di La Paz, e può servire soltanto per la produzione della cocaina.
La contraddizione di un governo che si dichiara “indigeno” e “ambientalista” ma segue tutt’altra strada è apparso con evidenza nell’ultimo anno.
Robert Cartagena, questo il nome del capo Tacana, invece di rivolgersi a me come previsto, ha chiesto a Marina chi ero… e lei ovviamente non ha proprio pensato di dirgli: «È lui baba carapa!» In ogni caso dopo un po’ eravamo i soli rimasti nel minuscolo aeroporto di Rurrenabaque e finalmente ci siamo riconosciuti.
L’aeroporto stesso era stato il teatro di un tentativo di rapimento da parte del governo di circa 200 leader indigeni presenti alla marcia. Oltre all’esercito boliviano partecipavano alla missione anche molti poliziotti/mercenari venezuelani. Il progetto era di far sparire i capi del movimento trasportandoli con tre aerei militari in località ignote così da decapitare la protesta… ma il piano era fallito grazie al coraggio dei Tacana e della popolazione locale che aveva dato fuoco alla pista e messo i militari di fronte alla possibilità di un conflitto che poteva finire con una strage da ambo le parti.
Nei giorni seguenti siamo andati nel villaggio di Tumupasa a fare le prime interviste e poi a Chalalan nel parco nazionale Madidi dove abbiamo nuotato in un laghetto in mezzo alla foresta pieno di caimani… ma la nostra guida aveva ragione: non attaccano l’uomo.
Per la colonna sonora del documentario boliviano avevo già avuto un po’ di musiche da Riccardo Giagni, un amico compositore conosciuto sui due film di Sabina Guzzanti ai quali ho lavorato da produttore. Il pezzo di apertura è perfetto: una musica molto avvolgente ed evocativa che accompagna le immagini realizzate a Villa Tunari nel Chapare, durante le ultime elezioni presidenziali boliviane, quando Evo Morales aveva vinto con il 63%. È il villaggio dove Evo ha iniziato la sua carriera politica e ancora oggi ci ritorna sempre per votare. Mi ero procurato una tessera della “Prensa Internacional” e così ho avuto modo di partecipare alla colazione che il Presidente offriva alla stampa estera alle sette del mattino: fritto di pesce, banane e Coca Cola. Mi aveva sorpreso che proprio un “luchador” contro l’imperialismo americano potesse offrire Coca Cola ai suoi ospiti. D’altra parte il mondo è pieno di contraddizioni…
Sulla musica di Riccardo, mentre Evo Morales avanza tra la folla dei suoi sostenitori, abbiamo utilizzato “fuori campo” il discorso del suo insediamento alla presidenza della Bolivia nel 2006, quando chiedeva un minuto di silenzio per la lunga lista di morti della resistenza indigena, una lotta durata cinquecento anni… da Che Guevara a Macelo Quiroga Santa Cruz a Bartolina Sisa… e altri martiri della lotta. Mi sembra un inizio molto forte, che suggerisce il clima nuovo che si respirava in Bolivia in quel momento, di grande speranza e cambiamento, d’inclusione sociale, di giustizia e trasparenza. Purtroppo le cose poi non sono andate proprio così…
Nel corso delle riprese di un documentario, molto più che di un film di finzione, il percorso non è quasi mai quello programmato… a volte non c’è nemmeno un programma se non qualche vago contatto o possibilità, come nel caso dell’incontro con il capo dei Tacana, dove c’era solo un appuntamento e una parola d’ordine - “baba carapa” appunto - che poi mi sono sempre dimenticato di chiedere cosa cavolo significa. Negli anni ho girato altri documentari con questo stesso spirito, in Sud Africa, negli Stati Uniti e in Israele. Temi e situazioni molto diversi, ma c’é stata sempre una strana sequenza di combinazioni e incontri che alla fine hanno portato a scovare cose interessanti, angolazioni originali e inedite delle questioni che andavo a trattare.
Nelle successive due settimane in Bolivia, passando da La Paz, siamo ritornati a Santa Cruz De La Sierra. Mentre aspettavamo le valige, Marina, che non riesce a stare zitta più di due minuti, ha cominciato a parlare con un giovane ingegnere minerario: una testimonianza che ci mancava. «Vedi, parlerò troppo, però intanto ho trovato un’intervista interessante…».
Lo abbiamo “microfonato” al volo, seduti al bar dell’aeroporto mentre Rodrigo, il nostro giovane autista (il più imbranato della Bolivia), ci aspettava in macchina con 40° e un’umidità micidiale. Solo il giorno dopo abbiamo scoperto per caso che il suo strano pulmino sgangherato era dotato di aria condizionata. «Rodrigo. Ma perché non l’hai detto prima! Qui fa un caldo infernale…». «Beh, non me lo avete chiesto». Inutile discutere. Rodrigo ha un candore infantile e anche se non era un granché come autista e la cinghia del motore del suo pulmino produceva una specie di ruggito stridulo, molto fastidioso… ormai ci eravamo affezionati.
A Santa Cruz abbiamo cenato con la scrittrice Luisa Fernanda Siles e suo marito Enrique e il giorno dopo siamo andati insieme a Samaipata, l’ultimo avamposto Inca. Un bell’incontro, anche questo voluto dal caso, che ci ha portato, dopo una serie di passaggi fortuiti, a un’intervista importante con un giornalista/opinionista molto conosciuto in Bolivia: Carlos Valverde. Carlos è noto per molte cose, tra le quali una sua esternazione di entusiasmo quando Evo Morales era stato eletto Presidente per la prima volta: «Mierda, que linda la democracia…!»
Nel giro di pochi mesi anche Carlos aveva cambiato idea, passando da fervido sostenitore a critico feroce del governo. Circa un anno dopo lo avevano sbattuto fuori dalla televisione di stato. Ora il governo lo lascia vivacchiare: uno spazio limitato sulla stampa indipendente e su un canale satellitare ma soltanto, come lui stesso sottolinea, «… per dare la falsa sensazione che il dissenso sia possibile…».
L’ultimo giorno il fido autista Rodrigo era sparito misteriosamente. Prima di partire per il Messico all’alba, avevo lasciato a Marina il compito di recuperare un Dvd dalla leader delle donne indigene, Justa Cabrera, con le immagini delle violente persecuzioni ai marcisti del TIPNIS. Marina sarebbe partita nel pomeriggio per Roma via San Paolo, ma non sembrava avesse intenzione di portare a termine la missione con quel caldo infernale, avventurandosi dall’altra parte della città senza Rodrigo; il quale poi era riapparso, addirittura con la cinghia del pulmino aggiustata, e così anche l’ultima incombenza era stata portata a termine. Avevamo una decina di ottime interviste e anche le immagini di repertorio. Missione compiuta.
Non avevo niente di preciso da fare a “DF” (i messicani così chiamano la loro capitale: Distreto Federal) ma avevo cinque giorni di tempo prima dell’appuntamento a Washington con l’ex Presidente boliviano in esilio Gonzalo Sánchez de Lozada, detto “Goni”, e avevo deciso di passare quei giorni in Messico dove ho alcuni amici molto cari. Sapevo che quell’incontro con Goni era fondamentale per il film, anche alla luce delle nuove impressioni raccolte in Bolivia… Fino a un paio d’anni fa era quasi un tabù nominare il suo nome a meno di non collegarlo a critiche feroci o insulti. Mi aveva sorpreso moltissimo sentire le testimonianze dirette dei leader indigeni che gli riconoscevano un ruolo fondamentale nel processo di riforma, e addirittura rimpiangevano il suo governo “con il quale era sempre possibile dialogare”, che rispettava le loro organizzazioni a differenza di Evo, ormai arroccato in un’arroganza e una durezza paragonabile a quella dei regimi dittatoriali del passato.
A Città del Messico mi sento veramente a casa. Nel quartiere dove di solito abito ho anche “il mio barbiere”, che ancora usa un vero rasoio affilato sulla striscia di cuoio. Vi sono un bellissimo cinema e un paio di ristoranti. Il mio amico Edmundo Font da poco era stato nominato Ambasciatore messicano nelle colonie inglesi dei Caraibi e stava per traslocare con la moglie Veronique nell’isola di Santa Lucia. Più dei soliti mariachi, per la colonna sonora di questi cinque giorni mi viene in mente ancora Wagner, ma il perché lo spiegherò più avanti…
L’appartamento di Edmundo a Rio Lerma stava per essere affittato e così questa volta mi ospitava un’amica italiana, Claudia Marcucetti, una scrittrice con una storia molto interessante: a 12 anni da San Daniele del Friuli si era trasferita a Città del Messico perché sua madre, dopo una tormentata separazione, aveva avuto un’offerta di lavoro da un parente. Il trasferimento doveva essere temporaneo ma poi madre e figlia avevano deciso di rimanere lì per sempre.
Per molti anni Claudia non aveva mai più rivisto il padre, un uomo molto simpatico, con un passato da truffatore, giocatore d’azzardo, marinaio sui generis: una vita di pasticci e avventure in ogni angolo del pianeta. Un vero “figlio di puttana” ma con una grande qualità umana… Vecchio e malato, era rientrato a La Spezia, sua città natale, dove stava per morire per incuria. A quel punto Claudia era andata a prenderlo e lo aveva salvato, portandolo in Messico, regalandogli qualche anno di una nuova vita. Il prossimo libro di Claudia, “Dove finisce il mare” (un titolo che le ho suggerito io), racconterà proprio le avventure di questo suo “padre ritrovato”.
In quei giorni ho girato un po’ la città con Edmundo e Veronique. È una metropoli meravigliosa, con una grande personalità, piena di luoghi e storie che Edmundo, da bravo Cicerone, illustra con il suo italiano elegante e un po’ aulico. «In questo palazzo viveva Octavio Paz, poi c’è stato un incendio… Questa è la fondazione di un altro grande scrittore messicano, anche lui diplomatico… Qui un giorno ho incontrato Juan Rulfo. È l’ultima volta che l’ho visto, è morto poco tempo dopo… Lo hai letto “Pedro Paramo”…? Straordinario!.. Su quella terrazza Weston ha fotografato Tina Modotti, le foto che hanno fatto scandalo con lei completamente nuda…
Edmundo è una fonte inesauribile e in quei momenti non posso che sentirmi un privilegiato nel poter camminare al suo fianco parlando di arte e letteratura e pensando a come tutte queste cose viaggino nel tempo e nello spazio, s’intersechino con le nostre vite con un’attualità che si rinnova sempre… Mi fa pensare a una grande giostra che gira, dove le stesse immagini del pensiero si concretizzano più e più volte, come nel mito dell’eterno ritorno.
La seconda sera siamo stati tutti invitati a cena dai Reyero. Non so bene da dove cominciare per descrivere Manuel Reyero e sua moglie Maria. Li ho conosciuti ad Acapulco nel 2004. Sono una coppia molto conosciuta in Messico per la loro grande ricchezza, una spettacolare eccentricità e una delle più importanti collezioni d’arte del paese. Oltre a un paio di Pollock e un’infinità di altre opere, da Velasquez a Keith Haring passando per Picasso e Siqueiros, possiedono anche il famoso quadro di Frida Kahlo dipinto durante il viaggio negli Stati Uniti con Diego Rivera, quello in cui tiene in mano la bandiera messicana mentre la bandiera americana è sullo sfondo.
Maria e Manuel hanno una certa età, ma vivono con uno spirito da bambini intrepidi, pieni di fiducia nel domani: non hanno mai perso il gusto per il gioco. La loro vita è proprio come un grande gioco al quale sono ammessi a rotazione una serie di amici di mezzo mondo e ormai anch’io faccio parte di questo gruppo. In pochi anni é nata una vera amicizia: un affetto reciproco alimentato anche a distanza via telefono.
Manuel è architetto e da giovane ha lavorato in America con il grande Buckminster Fuller. Il progetto della sua vita è “La Guardessa”, la sua casa a Lomas Altas, dove nel centro di Mexico City sembra d’essere in un canyon in mezzo alla foresta.
La casa, o meglio, il palazzo… è ENORME. Fa un po’ pensare alla casa di Kane nel film capolavoro di Orson Welles, ma nonostante le dimensioni é stata progettata con la chiara intenzione, se pure nello sfarzo e nella spettacolarità degli spazi, di mantenere una speciale discrezione. Quattro dei sei piani sono nascosti dal dislivello del terreno e scendono verso il basso del canyon. Ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo è stato pensato in tutto e per tutto, dalla scelta dei materiali, sempre diversi e sorprendenti… all’arredo, all’illuminazione.
Nell’enorme sala da pranzo con pareti di cristallo che danno sul giardino c’è un grande lampadario d’oro massiccio del ‘700, un pezzo unico al mondo, realizzato per non mi ricordo quale testa coronata da un famoso gioielliere dell’epoca. Ci sono oltre settanta persone di servizio nella “casa”, tra camerieri, cuochi, autisti, guardiani, giardinieri, guardie del corpo, addetti ai dodici pastori tedeschi e ai tre yorkshire.
Le cene dai Reyero sono sempre uno show. I padroni di casa ormai sono esperti nel giocare con la combinazione degli ospiti, con i racconti e gli aneddoti, con le sorprese…
Maria è sempre stata famosa per la sua bellezza mozzafiato ed ha un carisma naturale che la fa essere sempre al centro dell’attenzione. Una volta ha dato del cretino all’ambasciatore indiano perché le aveva chiesto se l’enorme brillante da tre milioni di dollari che portava al dito era autentico. Lei è così, dice sempre e solo quello che al momento le passa per la testa… Certo, non tutti se lo possono permettere, ma la sua non è scortesia, è “amore per la logica”: «come può questo cretino pensare che il mio anello sia falso…? Ma si è guardato in giro? Si rende conto di dove abito?»
Quella sera c’erano una ventina di persone. Quattro “mariachi” suonavano e cantavano il repertorio tradizionale mentre gli ospiti giravano ammirando le opere del piano terra: Diego Rivera, Francisco Toledo, David Alfaro Siqueiros e Remedios Varo, la mia preferita!
Eh sì, sarebbe bello se Manuel e Maria mi adottassero. Sarei un figlio modello, lo prometto… Abbiamo le stesse passioni: l’arte, la buona cucina, il buon vino, il gusto per la condivisione. Potrei stappare un po’ più spesso un La Tâche Romanée Conti 1976… Potrei comprare un quadretto di Gerhard Richter per la mia piccola collezione personale… Passerei parte del freddo inverno europeo nell’incredibile villa di “Las Brisas” sulla baia di Acapulco scrivendo le mie sceneggiature, senza preoccuparmi di dover fare dei lavori “riempitivi”… Potrei andare a New York per vedere una mostra al MOMA o l’ultimo successo off Broadway, soggiornando nel grande appartamento all’Olympic Tower… e altre cose inimmaginabili per un comune mortale.
Nonostante questi aspetti apparentemente superficiali (che poi superficiali non sono perché implicano una fratellanza negli intenti), il ricordo più intenso che ho di Manuel e Maria è legato alla morte di mio padre. Durante uno dei viaggi in Messico, mio fratello Alessandro mi aveva raggiunto e lo avevo portato con me dai Reyero. Dopo lo stupore iniziale anche lui si era subito sentito a suo agio. Quando siamo andati via, sulla porta di casa, senza un motivo particolare, i nostri amici avevano voluto farci notare qualcosa che per loro era evidentemente importante: quanto avremmo dovuto essere grati ai nostri genitori, per l’apertura mentale e l’educazione che avevamo ricevuto… e che quella era la vera ricchezza.
Circa due mesi dopo mio padre è morto. Al suo funerale c’erano più di mille persone ma c’è stato un momento in cui io e mio fratello ci siamo trovati vicini, in mezzo a tanta gente. Nello stesso istante abbiamo pensato alle parole dei nostri amici messicani che pur essendo dall’altra parte del mondo ci erano così vicini. Abbiamo confrontato quel ricordo, quel frammento vissuto insieme che improvvisamente diventava significativo.
Prima della mia partenza Manuel mi ha inviato a un’altra cena “a palazzo”, più intima questa volta, con pochi amici… C’erano Edmundo e Veronique, un generale dei servizi segreti messicani e David Parker, un americano molto simpatico che già conoscevo, editore di una rivista di arte e fotografia. Eravamo in una delle sale del secondo piano, dove c’è il Jackson Pollock da 100 milioni di dollari… e una serie di altri quadri da museo tra i quali un Basquiat giallo e un bellissimo Pierre Soulages, nero su bianco, appeso a una rotaia scorrevole, così grande da nascondere un gigantesco schermo al plasma.
Maria mi fa vedere il piatto vuoto, una ceramica déco: «Oggi ho mangiato tutto, il piatto è salvo!» Ultimamente è dimagrita un po’ troppo; se non finisce la porzione a volte Manuel perde la pazienza e scaraventa il piatto dalla finestra.
Tutto avviene davanti agli ospiti con uno spirito provocatorio che spesso ha lo scopo di stimolare, di produrre un effetto nei presenti, ma senza malizia, più direi nell’ottica di una condivisione totale della vita, un’ammirevole fiducia nei confronti dell’umanità che li circonda. Mi viene in mente una battuta di De Niro in “Casino” di Martin Scorsese… Il senso era: se non c’è fiducia che senso hanno i rapporti umani? Sono d’accordo, anch’io tendo sempre a fidarmi a costo di sembrare ingenuo. Se poi il filo della fiducia si spezza vorrà dire che cambieranno i rapporti… ma fino a quel momento credo che “non fidarsi” sarebbe un danno ben peggiore.
Nel corso della cena, presi dalla conversazione, nessuno aveva notato il movimento dei camerieri alla spalle di Manuel, fino al momento in cui uno strano e improvviso rumore aveva attirato l’attenzione generale… Un piccolo elicottero telecomandato si era alzato in volo e stavo attraversando la sala in diagonale fino a passare pericolosamente, con le sue pale rotanti, vicino a Pollock…
Edmundo si era messo le mani nei capelli. «Hay dios mio… Mira… el Jackson Pollock!»… L’elicottero procedeva sfiorando Basquiat… Orozco… Siqueiros… Doctor Atl… Diego Rivera… Solo Pierre Soulages è rimasto fuori della sua rotta. Da capotavola Manuel guidava abilmente l’elicottero con un telecomando: rideva felice per la riuscita della sorpresa e per l’apprensione che in pochi secondi aveva creato tra i presenti per il pericoloso gioco con le superfici plurimilionarie delle pareti.
Anche Maria rideva, mostrando sorpresa e sbigottimento… «Manuel, tu estas loco…!» Anche lei era parte dello show, gli dava il giusto contrappunto, ma allo stesso tempo era evidente l’ammirazione e l’amore per il compagno della sua vita che ancora una volta si era inventato qualcosa di sorprendente.
Ma ecco tornare Richard Wagner… David Parker, dimostrando di essere su una lunghezza d’onda molto vicina alla mia, con il suo iPhone si era sintonizzato su iTunes: “La cavalcata delle Valchirie”.
È evidente che “Apocalypse Now” fa parte anche del suo immaginario e il pericoloso volo dell’elicottero lo aveva portato immediatamente a quel pensiero. Le note di Wagner, pur provenendo dal piccolo diffusore del telefono, erano diventate subito protagoniste, imponendo a tutti lo stesso pensiero, lo stesso ricordo, se pure in una chiave ironica e paradossale.
Ed ecco che tutto si ricongiungeva magicamente in un cerchio virtuoso che dal cinema Odeon di Udine mi portava alla passione per il cinema, all’esplorazione del mondo, alla rielaborazione dei pensieri e delle idee… Vedevo gli infiniti percorsi possibili, come quello che mi ha condotto dalla foresta amazzonica boliviana alla “corte” di Manuel e Maria Reyero, dove mi trovavo in quel preciso momento…
Joseph Conrad, Francis Ford Coppola, Jim Morrison, Richard Wagner, il mio bisnonno Ettore architetto e “baba carapa”: è il cerchio dell’eterno ritorno che racchiude con il suo manto prezioso e sorprendente la grande avventura della nostra vita.
Ferdinando Vicentini Orgnani