Alan Vega
Ultimo blocco di cortometraggi della sezione 7 Inch al festival torinese
SeeYouSound.
Michele è magro magro, riccissimo e ha una passione: il
moonwalk (passo di danza tipico di Michael Jackson). Da questo spunto Giuseppe Marco Albano tira fuori dal cilindro
Thriller, un corto colorato e ritmato stile pop che ha conquistato (la notizia è di pochi giorni fa) la giuria dei David di Donatello vincendo il primo premio.
Se l’ispirazione è leggera il contesto è problematico, tanto quanto può esserlo la città di Taranto con le sue due facce: mare-luce-sole-pesce e l’Ilva. Talmente problematico che rischia di schiacciare il sogno di un ragazzino.
In
Thriller la faccia positiva ha i volti del passato (rimpianto) e del futuro (desiderato), mentre nel presente si parla solo di inquinamento e licenziamenti. E di danza: Michele è il lato buono di Taranto; e danza: a casa, in classe, per strada; non ha bisogno di musica perché ne ha piena la testa. Vorrebbe stare al centro di qualcosa, e cercando i più scontati riflettori di un palcoscenico, trova una scena molto più importante su cui apparire. E nel calcarla si trasfigura, regalandoci la scena zombie finale.
Non si può terminare la visione di
The Integrity Of Bruno Wizard senza provare una stupita ammirazione per la folle, inconsueta integrità, che ha portato il suo protagonista, negli anni ’80, a prendere premeditatamente la decisione che ha deviato la sua carriera.
Mentre formazioni come i Sex Pistols o The Clash firmavano per le grandi major, i The Rejects, gruppo di Wizard, trovano un éscamotage per preservare la loro “integrità” da ciò che ritenevano una pericolosa contaminazione e cambiano nome, scegliendone uno che garantisse loro il totale e perenne disinteresse del “mercato”. Nascono così gli “Homosexuals”, gruppo amato e ammirato nell’ambiente musicale, ma quasi sconosciuto al grande pubblico.
Wizard: “Non avrei voluto vivere con me stesso se avessi ingannato un’intera generazione come la mia generazione (n.d.r. anni ’60) è stata ingannata”. Più chiaro di così.
Il documentario di 2’ proietta lo sguardo indagatore (giudicante?) di Bruno Wizard che in un ravvicinato primo piano ci guarda negli occhi raccontandoci quel breve ma fatidico passaggio della sua vita, tra immagini che riportano alla sua storia e altre girate di recente per un concerto al “London Punk Club”. Perché Bruno Wizard, con la sua etica immutata, è ancora in attività.
Documentario classico con un’aura vintage (grazie all’uso del Super-8)
Revolutionary Rockers cattura immagini per strada e raccoglie dichiarazioni sul campo, come può fare un reportage “in presa diretta”. Il contesto è il “Festival Notting Hill Carnival”, storica manifestazione di piazza che nasce nel mondo degli immigrati caraibici che, già negli anni ottanta, sentono l’esigenza di evocare le loro origini.
Si suona reggae (roots reggae e dub) ma soprattutto si parla di società, di valori, di religione. Sì, perché i Sound System, di cui vengono intervistati alcuni esponenti, parlano di accoglienza nella diversità e di condivisione, di orgoglio nero e di tolleranza; sono esponenti di un genere nato nei ghetti giamaicani dove, ribellandosi al degrado, trovano il modo per diffondere festa e divertimento. La loro è una musica ribelle, ma attraversato l’oceano, trattiene l’istanza più universale del loro messaggio: spiritualità, pace e armonia, che, condivise da tutti, avvicinano il genere ad un pubblico sempre più multietnico.
Cosa resta di
Alan Vega, artista visionario e pioniere dell’elettro-rock minimalista, oltreché vocalist e compositore del duo punk/post punk Suicide (1970/80)? La regista Marie Losier, nota per i suoi film-ritratto su registi, musicisti e compositori, con
Alan Vega: Just A Million Dreams si avvicina al quotidiano della star Alan Vega con delicatezza lasciando spazio ad ogni eccentricità, mania, vezzo, gesto d’arte.
Su una colonna sonora tutta – naturalmente – made in Suicide, l’artista punk/rock da un lato gioca alla primadonna con la telecamera, svelando un forte senso dell’apparire (lunghi primi piani distorti o zoomati attraverso una lente) e dall’altro ci accoglie in famiglia tra divano e strumenti musicali. Ma il settantacinquenne con il gusto della ribellione si mette in movimento anche con la moglie Liz Lamere e il figlio Dante (adolescente lanciato sulle orme del padre), posando per sequenze che sembrano un videoclip, e partecipando – ultime scene del film – ad un concerto live di tutta la famiglia.
C’è un album che è generalmente considerato una pietra miliare dell’hardcore punk americano, ed è “Zen Arcade” degli Hüsker Dü, concept-album che sperimenta in diverse direzioni. Maria Teresa Soldani – video maker, compositrice e musicista – lo incontra, lo assorbe, lo rielabora e ce lo ripropone in una versione visiva che tenta di seguirne l’idea narrativa e le varie fonti ispiratrici. Prende allora la videocamera e, tra Minneapolis e il Minnesota, cerca atmosfere, scorci, suggestioni – soprattutto urbane – che possano visualizzare la musica degli Hüsker Dü. Nasce così
Broken Home, Broken Heart; e se “Zen Arcade” tratta dell'alienazione adolescenziale raccontata dal punto di vista di un giovane qualsiasi, la Soldani nella sua versione cinematografica sublima questa alienazione in visione, trovando la perfetta sintonia con ambienti notturni e/o solitari.
Quasi privo di parole, il corto si chiude con l’annuncio che il 1 luglio 2011 il governatore del Minnesota ha dichiarato il fallimento dello Stato e questo, commenta in breve la Soldani, “porterà a un nuovo inizio”.
Un inizio dopo aver toccato il fondo, un inizio dopo “Zen Arcade”, un inizio dopo Broken Home, Broken Heart.
C’è molto di meritevole in
Nodas. Launeddas in tempus de crisi (Le launeddas al tempo della crisi). Partiamo da quello strumento dal suono nasale ma lieve che sono appunto le “launeddas”: che scoperta! Ad ascoltarlo ti si riempie la testa di vita agreste, di cielo, ma anche di colonne altissime e strette di mano vigorose. E con
Nodas impariamo a conoscerlo, a intravederne le origini, la costruzione, ma soprattutto sentiamo le voci dei giovani musicisti che lo suonano per passione, sperando di farne una professione. È la generazione che l’ha riscoperto dopo anni in cui ha rischiato di scomparire, e lo suona con una perizia e una professionalità che strappano ammirazione. Sono cinque talenti che ci raccontano i loro percorsi, il loro rapporto con lo strumento, e i progetti che sognano di realizzare (tra tante esecuzioni tradizionali c’è chi immagina un repertorio nuovo e contemporaneo per le amate launeddas, e ne sentiamo un esempio). Li vediamo provare insieme, dissertare sull’interpretazione, fare lezione e suonare solitari in cima ai picchi o in gruppo alla testa di lunghe processioni di paese.
Ma Nodas non è solo una finestra sul senso di ancestralità che può trasmettere uno strumento che ha circa 3000 anni, né solo la dedizione di cinque ragazzi per questo strumento; tra le righe (ma anche grazie ad alcune interviste) trapela la condizione di un’intera generazione, alle prese con una scuola che non sente corrispondere alle proprie esigenze e un mondo del lavoro che non sa accoglierla. Forse tutto ciò specchio dell’intera Sardegna. Forse tutto ciò specchio della nostra società.
17/05/2015, 18:00
Sara Galignano