CORTI 'N JAZZ: racconto di un legame a filo doppio
Cinema e jazz, due simboli essenziali della cultura e della storia del novecento, sono sempre andati a braccetto: non è un caso, per esempio, che il primo film sonoro della storia si chiamasse
The Jazz Singer. Questo rapporto stretto è evidenziato dalla serata "
Corti d'autore8: corti 'n jazz", organizzata dal Centro Nazionale del Cortometraggio e dal Torino Jazz Festival mercoledì 27 maggio, come anticipazione dell'imminente Torino Jazz Festival.
Cinema e jazz hanno avuto molti destini in comune. Come il fatto di essere stati entrambi amati, nei primi anni di vita, dalle classi più popolari e un po' snobbati e osteggiati da quelle più alte, o il fatto di essere velocemente diventate forme di intrattenimento capaci di portarsi sulle spalle questioni sociali essenziali e di creare una precisa visione del mondo. Anche il loro destino in questa contemporaneità è simile: quello cioè di essere diventati uno status symbol culturale un po' svuotato delle sue essenze più profonde dal benestante pubblico di maggiore riferimento (si intenda, almeno per il cinema, della sua ricezione più diffusa e dell'incapacità di leggere a fondo un film, e non del valore di singole opere e cinematografie).
Del resto, numerosi sono i film in cui la colonna sonora jazz ha avuto un ruolo fondamentale: dagli assoli di tromba di Miles Davis ne
L'Ascensore del patibolo di Luis Malle alle sonorità di
Strade Perdute di David Lynch, fino al recentissimo gioco al massacro di
Whiplash. "Corti d'autore: corti 'n jazz" presenterà quattro cortometraggi che costituiscono una ricognizione sul jazz, raccontato con stili e generi diversi: dal documentario più tradizionale, all'apologo surreale, all'opera più dichiaratamente sperimentale. L'arco di tempo è quello vasto che va dal passaggio, negli anni 50, dal classicismo del tardo neorealismo del nostro cinema ad una visione più moderna, passa per l'affermarsi di questa modernità, e arriva ai documentari e alle sperimentazioni contemporanee.
GIANNI AMICO
Protagonista di primo piano della serata è Gianni Amico, regista dalla catalogazione sfuggente e poco conosciuto ai più (autore di film come Tropici, ma in realtà attivo in quasi ogni campo della macchina cinematografica, dalla produzione, alla sceneggiatura, all'attività critica. J.L. Godard dedicò a lui un capitolo delle sue Historie(S) du Cinemà).
L'autore è oggetto del documentario
L'Uomo amico di Germano Maccioni, curato da Olmo Amico. La personalità e la poetica del regista vengono tratteggiate sulla base delle testimonianze, delle considerazioni e degli aneddoti raccontati dall'amico Bernardo Bertolucci (i due collaborarono a lungo, per esempio per Prima della rivoluzione e per Il conformista), dal vulcanico Tatti Sanguinetti e dal musicologo e direttore del Torino Jazz Festival Stefano Zenni. Dalle testimonianze dei tre intervistati esce un ritratto allo stesso tempo "storico-critico" dell'autore, e un partecipato ricordo dell'uomo, soprattutto attraverso l'accorato racconto di un visibilmente commosso Bernardo Bertolucci. Lo testimonia anche il finale dedicato al figlio, tenerissima dichiarazione d'affetto. Del resto, non bisogna pensare ad una netta separazione tra "uomo" e "autore": l'elemento più interessante che traspare dal documentario è proprio, infatti, il ruolo quasi totalizzante assunto dal cinema, e dalla sua rielaborazione successiva, sulla vita, e in particolare da un'idea di cinema contemporaneamente etica ed estetica, morale oltre che culturale e prima ancora che politica. Una sorta di "monopolio" sugli altri aspetti dell'esistenza, come notato ancora da Bertolucci. Fondamentale per il cinema e la personalità di Gianni Amico è stata la musica, con il jazz in primo piano, continuamente richiamato nei suoi film e negli spezzoni del documentario.
Il documentario che è pubblicato come extra di un dvd, curato dallo stesso Olmo Amico, che contiene altre tre misconosciute opere del padre nei quali le sonorità jazz assumono un ruolo fondamentale: il cortometraggio d'esordio Noi Insistiamo! Suite per la libertà subito è dedicato a musicisti come Max Roach e Charles Mingus e al loro sostegno alla lotta dei diritti civili dei neri. Accompagnate dalle note della batteria di Roach e da dolenti liriche blues, vediamo un susseguirsi di fotografie raffiguranti le torture e le discriminazioni di cui sono stati vittime le comunità afroamericane. Il film non si limita però alla situazione statunitense, ma sceglie immagini provenienti anche dall'Africa e da altre nazioni: la tematica e la denuncia assumono così un valore più vasto ed ecumenico. Sono immagini durissime nella loro sincerità, ma allo stesso tempo non mancano i resoconti delle proteste e delle rivendicazioni e immagini di serenità quotidiana più fiduciose e speranzose: il film segue, infatti, la tripartizione, esplicitata all'inizio, di "preghiera-protesta-pace", sottolineata dalle variazioni delle sonorità jazz e blues.
La centralità della musica è evidente, fin dal titolo, in
Appunti per un film sul jazz, girato durante il Festival Internazionale del Jazz di Bologna. Amico riprende i musicisti durante le prove, cercando la maggior aderenza possibile con l'atto del suonare. Il documentario diventa, così, testimonianza dell'energia creativa e della capacità del jazz di diventare un mondo a sé.
Per quanto riguarda il terzo lavoro contenuto nel dvd, Cinema delle realtà, apparentemente si potrebbe pensare che il jazz abbia un ruolo meno evidente e importante, dato che è un documentario sul neorealismo e sulle sue eredità, basato sulle interviste e sulle considerazioni dei protagonisti di quella stagione -da Rossellini, a De Sica a Zavattini- e dei loro eredi della "nouvelle vague" di metà anni sessanta -Bellocchio, Bertolucci, Fratelli Taviani. La ricognizione non si limita ad essere un documento di storia del cinema, ma diventa piuttosto un punto della situazione delle eredità culturali e politiche del neorealismo, della sua utilità ed efficacia nella nuova società del boom. Soprattutto però diventa uno strumento di discussione e di riflessione sui diversi modi di rappresentare e di analizzare le realtà, trovando, nelle parole di molti dei nuovi registi, una sorta di rottura tra il "naturalismo" neorealista e le nuove forme del realismo, più interiori e stilisticamente fantasiose, degli anni sessanta. Una rottura più forte, probabilmente, nelle convinzioni dei protagonisti di allora, che nella realtà dell'evoluzione cinematografica, ma che rimane comunque testimonianza dei cambiamenti sociali e culturali. Il jazz ha qui il ruolo di aprire e di chiudere il "dibattito" riportato dal film, con due brevissimi ma significativi assoli all'inizio e alla fine, significativamente più rilassato e tradizionale il primo, e più sincopato e "free" il secondo.
ZURLINI
Oltre al documentario su Gianni Amico, la serata avrà come protagonista anche un altro dei registi italiani allo stesso tempo estremamente importanti e misconosciuti ai più: Valerio Zurlini, che tra gli anni sessanta e la prima metà dei settanta entrerà nella storia del nostro cinema grazie a film come Un'estate violenta (1959), Il deserto dei tartari (1976) e La prima notte di quiete (1972). Tre anni prima di esordire nel lungometraggio con Le Ragazze di San Frediano, Zurlini realizza il documentario
I Suonatori della Domenica (1951), dedicato ai jazzisti di strada romani, quei suonatori che si ritrovano a suonare nelle strade e nelle piazze della capitale e che, costretti ad altri lavori per vivere, solo suonando in gruppo possono svolgere un'attività insieme sia creativa che ricreativa.
Con questo documentario, il regista affina il suo sguardo, raccontando chi ha portato il jazz al centro della vita culturale della capitale, e realizzando così uno spaccato della Roma di passaggio tra l'immediato dopoguerra e la ripresa degli anni successivi, in cui i suoni jazz e i canti blues sottolineano scorci di abbandono, disperazione e solitudine così come orizzonti di speranza. Zurlini quindi, anche se in chiave documentaria e in maniera più implicita, lascia intravedere la sua abilità nel rappresentare con delicatezza le solitudini dei personaggi causate dal contesto che li circonda, e le conseguenze di questo sulle loro scelte e sui loro sentimenti.
TROMBA FREDDA
13 anni dopo, Enzo Massa realizza Tromba fredda, surrealista ritratto del grande trombettista Chet Baker nel suo vagare per una Roma quasi metafisica nelle sue ambientazioni particolari (i vagoni merce abbandonati ai margini della stazione, un campo di roulotte e le statue del Foro Italico, fino all'immancabile osteria tipica dalle tovaglie a quadri), perseguitato dalle apparizioni improvvise di due, un po' inquietanti, pupazzetti che suonano.
Accompagnato esclusivamente dal suono della tromba del musicista, allora all'apice della sua carriera, è un'originale e ironica rappresentazione dell'artista, il cui vagare diventa simbolo di uno spaesamento e di un disagio. Il pedinamento a cui viene sottoposto l'artista sembra di derivazione zavattiniana, ma la cornice stilistica e visiva tipica della nouvelle vogue accentua il senso di straniamento, oltre che evidenziare il surrealismo di fondo. Il corto è anche una divertita, ma non priva di un vago sottofondo amaro, riflessione sul senso e sulla percezione della musica: il musicista è come corpo estraneo alle modalità di fruizione della musica più diffuse e superficiali, simboleggiate dai due pupazzetti che lo perseguitano, così come pare un corpo estraneo alla societa (si noti anche, a questo proposito, il disinteresse totale mostrato da una coppia di mezz'età nei confronti degli assoli di tromba).
JAZZ PER IL MASSACRO
Chiude la serata
Jazz per il massacro (2014), una scatenata e vivace jam-session musicale e pittorica, nella quale 20.000 fotogrammi dipinti, incisi e acidati creano una fantasmagorica danza cromatica che non dà punti di riferimenti e che così riassume, visivamente, l'imprevidibilità, i cambi di tono e di ritmo, e la libertà tipici di una jam session. In questo modo, l'incontrollabile flusso di immagini e di colori, di volti definiti e non definiti, accompagna e sottolinea alla perfezione la scatenata rapsodia delle note e delle loro variazioni. Non è una rapsodia in blu, ma una rapsodia estremamente colorata e fantasiosa, che non dà punti di riferimento.
Fondamentale risulta, naturalmente, l'improvvisazione jazz del sax di Marco Colonna, che si sposa alla perfezione con le astrazioni create direttamente su pellicola dal regista Leonardo Carrano, il quale continua così il suo lungo percorso di sperimentazione sulle combinazioni tra stili e linguaggi diversi, e montate da Giuseppe Spina. Il corto è un omaggio all'artista e cineasta sperimentale Nato Frascà, inventore del metodo dello scarabocchio, libera forma di espressione artistica con cui poter esplorare l'inconscio.
Così, con le quattro opere prescelte, la serata Corti 'n Jazz mostra alcune delle diverse strade attraverso le quali cinema e jazz possono incrociare il loro cammino.
Edoardo Peretti20/05/2015, 10:38