Note di regia di "Arianna"
“Arianna” è un film che viene da lontano, da un inatteso gesto dell’inconscio di un bambino che un giorno sogna di essere donna e da allora si trova a confrontarsi con una domanda fondamentale a cui non aveva pensato: perché ci è data questa identità e non un’altra? Quel bambino sono io a nove anni e i sogni in cui immaginavo di essere altro da me mi hanno accompagnato a lungo durante quella tarda infanzia in cui ci si comincia a interrogare sulla propria esistenza terrena. Il precipitato di quei sogni, forse il riemergere delle loro memorie, sono l’origine emotiva di questo film. “Arianna” è un film che s’interroga sul rapporto tra potere e anormalità e sulle conseguenze del loro conflitto.
Ho cominciato a scrivere le prime stesure sei o sette anni fa, prima da solo e poi con Carlo Salsa, sceneggiatore e amico caro, con cui ho condiviso mesi folli di clausura e riscrittura ossessiva, senza sapere, almeno all’inizio, quale sarebbe stata l’identità del film (la paura di dare una forma definita a un desiderio e una immagine densa di senso è stata a lungo un blocco per me).
L’ultimo anno prima di iniziare le riprese si è aggiunta Chiara Barzini, a darci una mano dove Carlo ed io non eravamo riusciti ad arrivare. La riscrittura sul set è stata una costante, dettata di volta in volta da quello che il lavoro con gli attori ci offriva e dalla scoperta di potenzialità o di limiti che prima delle riprese sarebbero state inimmaginabili. Quando è arrivato Tommaso Bertani a tirare fuori il film da una difficile situazione, assumendosi in tutto e per tutto la responsabilità produttiva, ci siamo resi conto che il solo modo di realizzarlo era di tenerlo il più possibile entro confini economici e produttivi limitati e di provare a girare con un gruppo di persone disposte a fare sacrifici, che hanno sposato a pieno il progetto. Ci siamo riusciti anche grazie al sostegno della direttrice della fotografia Hélène Louvart, che ha lavorato anche i sabati e le domeniche, a troupe ridotta, pur di filmare quello che serviva alla storia: alcune delle scene più belle non esisterebbero se non avessimo girato in questo modo.
Oltre a questo, il film è stato girato quasi tutto in una location unica, la casa di un’amica sul lago di Bolsena, o nelle sue strette vicinanze, nei boschi e nelle vie tufacee della mia infanzia, delle mie estati di bambino, luoghi che conosco bene, carichi di ricordi che, analogamente a quanto succede nel film ad Arianna, hanno cominciato a riaffiorare mentre giravamo. Con Hélène abbiamo sempre cercato uno stile semplice, essenziale, quasi primitivo e questo è valso anche per la musica, composta da Emanuele de Raymondi, per cercare di far echeggiare quello che quei luoghi antichi, antichi come il mito di Ermafrodito, ci suggerivano.
Sul set, con il passare dei giorni, Ondina Quadri (interprete di Arianna), inevitabilmente più rigida e impaurita all’inizio, ha cominciato lentamente a fiorire e a trasformarsi, come se il desiderio di femminilità del suo personaggio si fosse impossessato di lei. Col passare del tempo è sbocciata in lei una femminilità inattesa e non preventivata che ho deciso di assecondare. Gli altri personaggi sono ognuno portatore di almeno uno degli atteggiamenti che la modernità ha nei confronti dell’ermafroditismo.
Il padre e la madre (Massimo Popolizio e Valentina Carnelutti) sono portatori, più o meno in buona fede, di quel sapere medico (il padre è medico lui stesso) che vede nell’ermafrodito un errore da correggere. Sapere medico che corrisponde evidentemente a un sistema di potere che ha ben chiare le proprie regole per funzionare. Celeste (Blu Yoshimi) è uno specchio in cui vedere quello che si potrebbe essere e che non si è, è la femminilità realizzata. Martino l’impossibilità di vivere un rapporto eterosessuale compiuto (l’ermafrodito non può provare piacere perché non rientra nei canoni di giustezza e per questo è evirato - punito - per essere reso normale). Arduino (Corrado Sassi) è un balbuziente che vive fuori dalle regole e che in fondo, e proprio per questo, funge da detonatore verso la scoperta della verità. La casa, anche lei come un vero e proprio personaggio, racchiude i ricordi e li restituisce quando Arianna è pronta ad accoglierli. Questi sono solo indici naturalmente, ma sono stati utili per strutturare i personaggi. Un altro aspetto che ho cercato di approfondire nel lavoro con gli attori è stato quello dello psicodramma. Nella scena con le ragazze alla casa delle donne abbiamo messo in scena un vero e proprio psicodramma che ci ha mostrato, e lo si vede nel film in maniera spontanea, quanto questo tema, il tema dell’identità sessuale e del piacere, sia un tema che ci riguarda tutti e su cui ci si dovrebbe forse interrogare di più.
Per me era importante che non ci fosse un confronto finale tra Arianna e i genitori nel finale del film. Il giudizio sulla condotta morale non è rivolto a loro ma semmai al sistema di potere di cui sono parte. Lo sguardo lontano di Arianna che osserva i genitori ballare alla festa la catapulta lontano, oltre questo giudizio, verso un luogo di perdono dove può sperare di ritrovare se stessa, senza per questo accettare di essere vittima. C’è un ulteriore contrasto tra la casa, dove tutto sembra vivere senza tempo, e l’ospedale, dove si nasce e si muore, e dove Arianna è stata evirata, in cui gli è stata preclusa l’appartenenza al mondo, almeno a quel mondo che non è altro che il riflesso di un’immagine proiettata troppo tempo fa per includere in sé anche l’ermafrodito.
Durante il montaggio, che abbiamo fatto in una casa di Parigi, Lizi Gelber ha cercato di dare al film una struttura ulteriore, e dove possibile, aiutare Ondina e la storia a dispiegarsi con semplicità ma con un maggiore ritmo rispetto a quello che avevamo avuto sul set, più dilatato e rarefatto. Questa rarefazione l’abbiamo restituita in fase di correzione colore, cercando dei toni tenui e mai veramente a fuoco, perché così è l’anima di Arianna.
Arianna, allora, è un film che ci riguarda. Perché, mettendo in scena il tema dell’ermafroditismo, mostra il limite che il potere esercita, sempre e comunque, nei confronti di chi, consapevolmente o meno, lo minaccia. È un film che ci riguarda perché mostra come l’ordine e il senso che diamo costantemente al mondo e a noi stessi per poter sopravvivere sia solo un sistema di difesa per non guardare a quella sovrabbondanza di senso che il mondo e noi stessi siamo: per sottrarci alla paura di non avere più gli strumenti per interpretarci, o di vedere in faccia la spiazzante fluidità dell’identità. L’ermafrodito è l’incarnazione meravigliosa e ambigua di questa sovrabbondanza e la vittima predestinata di ogni rigore: è l’immagine non polarizzata, né A né B, l’immagine dialettica incarnata. Il film prova a mettere in scena un’oscenità (ossimoro possibile solo nel mondo contemporaneo) e la lotta ingaggiata tra l’ermafrodito e il potere.
Carlo Lavagna