Note di regia di "Vinicio Capossela - Nel paese dei Coppoloni"
Il film è un viaggio reale nell'assurdo, documentazione di posti e luoghi che, una volta lasciati, stenti a credere di aver attraversato e conosciuto.
E' stato come vagare dentro le pagine del libro o camminare sui pentagrammi delle nuove canzoni di Capossela. Canzoni che nascevano, risorgevano e crescevano più velocemente di quanto potessimo essere rapidi noi nel catturarle.
Seguendo Vinicio, attraverso le valli del Paese dei Coppoloni o nei vicoli del Paese dell'Eco, puoi davvero capitare alla Barberia di Sicuranza mentre Testadiuccello intona "Taresuccia" oppure, poco lontano, nella piazza di Andretta, non sarà poi così assurdo e anomalo sentire la possente voce in tecnicolor di Ciccillo intonare "Vierno" a pieni polmoni.
Ma il film è pregno anche di quanto l'obiettivo non ha registrato, sazio di pranzi luculliani a base di “cannazze e vraciole”. Quando, tra una ripresa e l'altra, è più facile ritrovarsi nella cucina di una numerosa famiglia irpina, accogliente ben oltre il consentito dalle umane digestioni, che trovare un ristorante aperto, negli orari imprevisti di chi insegue le immagini del surreale.
Magari si è appena finito di combattere un vento che sibila a 100 all'ora, in una cava abbandonata, dove i fratelli Fiordellisi, impagabili tuttofare calitrani, hanno appena parcheggiato una trebbiatrice volante, e il sospetto che davvero questa possa volare non è poi così vago.
Oppure seguire la signora Maria Cuneconda tra i sentieri bui delle valli perché solo lei sa la giusta strada per giungere al bosco cercato invano per ore. E che a quel punto non può esimersi dal divenire personaggio del documentario. In cambio chiede una sola cosa: poterti offrire una cena di inestimabile semplicità e per questo rigeneratrice di forze come nient'altro potrebbe esserlo.
E ancora frasi, trovate sulla via, che entrano nel racconto filmico, quasi per caso, ma mai a sproposito, sentite dire da chissà chi altrove e che calzano talmente alla perfezione nella scena che a pensarle mai si sarebbero trovate. "Al Padre Eterno le cose inutili sono sempre venute bene!" non può restare fuori dal racconto, così come le musiche nate e quelle risorte, tra le fascine portate a dorso di mulo o tra gli alberi, al suono di un piccolo pianoforte rosso, o ancora suonate da bande che vagano per vicoli vuoti.
Chi eravamo, cosa volevamo, cosa andavamo cercando, forse non lo abbiamo ben capito.
Ma navigare questo mare, alla ricerca dell'inutile, è stata esperienza indimenticabile.
Stefano Obino