MINA WELBY - "La nostra tv tratta il fine vita poco e male"
Dopo il passaggio al Festival dei Popoli di Firenze, "
Love is all. Piergiorgio Welby, Autoritratto" di Francesco Andreotti e Livia Giunti, è stato proiettato in anteprima nazionale presso il Cineclub Arsenale di Pisa.
In occasione della serata evento abbiamo intervistato
Mina Welby, vedova di Piergiorgio e co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, che ci ha parlato della collaborazione fra lei e i registi toscani e del suo impegno sul tema del fine vita.
“Love is all” arriva a distanza di dieci anni dalla morte di Piergiorgio. Quando ha realizzato che Francesco Andreotti e Livia Giunti sarebbero state le persone giuste a cui affidare la storia di suo marito per il grande schermo?
Ho conosciuto Livia mentre ci prendevamo cura di alcuni falchi sulla terrazza della facoltà di economia della Sapienza di Roma. Si parlava di Piergiorgio, che in passato aveva seguito i nidi dei falchi e ne aveva scritto sul forum “Vestivamo alla marinara” accompagnando i suoi racconti con delle battute ironiche. In quell'occasione tenni a battesimo il primo nato e diedi il nome Ariel, che faceva contrasto con il nickname che Piergiorgio si era dato “Calibano”, lo sporco e cattivo. Livia mi dimostrò particolare interesse e mi piacquero subito la sua schiettezza e la sua delicatezza. Poi quando uscì il libro “Ocean Terminal” lei e Francesco mi invitarono a Pisa per presentarlo e da lì in poi la collaborazione fu una cosa assolutamente naturale. Li portai nei posti cari a Piergiorgio e li presentai ai suoi parenti. Dopo il 2006 anche altri registi mi cercarono per girare dei film su di lui, ma a differenza del lavoro di Livia e Francesco, quei progetti non potevano funzionare perché si voleva fare tutto troppo di fretta e questo non mi convinse.
Come mostra il bel documentario, davanti alla malattia Piergiorgio non si è rintanato, ma ha reagito con un'esplosione di parole e colori. Il film mostra i suoi dipinti, i suoi scatti fotografici e i suoi testi, ma cosa ci può dire del Welby cinefilo e cultore musicale?
A lui piaceva moltissimo il cinema e aveva un vero pallino per Woody Allen! Amava molto anche i film horror, mentre verso la fine verso la fine apprezzò quel cinema capace di raccontare la malattia, come “Mare dentro”, “Le invasioni barbariche” o “Million dollar baby”. E poi ebbe anche delle piccole “esperienze cinematografiche” personali, come comparsa nelle scene di massa a Cinecittà, così poteva farsi regalare il cestino delle vivande, e nel '79 al San Camillo, come intervistato per un film sulla tossicodipendenza che un regista romano stava realizzando. Era anche un attento ascoltatore e aveva una grande collezione di dischi di Bob Dylan. Come ultimo ascolto avrebbe voluto Vivaldi, ma dal momento che non riuscivo a trovare quel cd, mi chiese di mettere su proprio Dylan.
Welby era un uomo di grande cultura, a cui piaceva sperimentare e provocare. Pare addirittura che avesse voluto acquistare una videocamera per essere filmato durante la morte...
Si, la comprammo perché questo era il suo desiderio, e in quel momento avrebbe voluto che il nipote Francesco Lioce gli leggesse una poesia di Mario Luzi. Invece poi ci ripensò, non volle inveire sulle persone e non volle che io lo filmassi nei suoi ultimi istanti. A dire il vero quella camera l'ho utilizzata io per filmare gli uccelli che venivano a trovarci sul nostro balcone, verdoni, verzellini e durante l'inverno anche un codirosso.
Con l'associazione Luca Coscioni è impegnata a trattare temi come l'eutanasia e il fine vita. In che modo si riesce ad arrivare ai più giovani?
Rispetto al tema molti ragazzi hanno già un background di esperienze personali, in seguito alla morte di un nonno o alla malattia di un genitore, perché la miglior lezione è la vita stessa. Negli incontri a scuola cerco di non entrare subito forte nel discorso, ma inizio ad esempio a parlare ai ragazzi delle piante, che sembrano morire ma poi rifioriscono. Cerco di spiegare cosa vuol dire davvero che ogni persona abbia il diritto di decidere per se e loro sono moto recettivi e fanno molte domande. Ricordo che subito dopo la morte di Piergiorgio, una ragazza di quattordici anni mi scrisse chiedendomi perché avessi lasciato fare al medico e non lo avessi fatto io. Le risposi che era una sua scelta, che non era possibile che io lo lasciassi morire soffocato e che c'era bisogno di una sedazione. Scoprii dopo che questa ragazza aveva perso entrambi i genitori e nonostante le fossero rimasti solo i fratelli, ha mantenuto una grande forza.
Se sull'argomento la politica va a rilento, cosa può fare la cultura per rompere barriere ideologiche e tabù e portare i cittadini a ragionare su questi argomenti?
Negli ultimi anni il cinema italiano ha fatto qualcosa, penso a "Miele" di Valeria Golino o a "Bella addormentata" di Marco Bellocchio. Mi sembra però che la società sia molto chiusa ad esprimersi verso queste tematiche. In tv si dovrebbe parlarne molto di più e in modo corretto, con dibattiti con persone qualificate. Non deve però succedere quello che accadde per Eluana Englaro, quando in tv si mise a confronto il suo caso con quello di persone recuperate dal coma. Sono cose differenti e così si strumentalizza e si creano degli equivoci. Con l'associazione Luca Coscioni siamo riusciti a sensibilizzare molti parlamentari e qualcuno ha avuto il coraggio di presentare delle proposte concrete. Il dibattito alla Camera è previsto per metà marzo. Spero che i tempi questa volta possano essere rispettati.
25/01/2016, 10:32
Antonio Capellupo