Gli occhi di
Moriom non hanno paura. Spesso fissi dentro l'obbiettivo scrutano, sfidano, o semplicemente cercano - forse - un contatto.
Diviso in due momenti, il documentario ha il sapore della messa in scena, della rappresentazione di sé che una mente malata propone senza filtri o pudori.
Moriom al centro dell'inquadratura si lava, a lungo, e i suoni attorno a lei non sono d'ambiente ma nella sua testa; si alza in piedi e scorgiamo una catena che le lega il piede: chi è, dove vive, cosa fa?
Moriom al centro dell'inquadratura parla dei suoi genitori che la trattengono, la maltrattano, chiede di essere liberata da loro; ma è la sua versione. Subito ascoltiamo il padre e poi la madre "testimoniare" le loro difficoltà, la loro sofferenza, la loro inadeguatezza nel gestire una figlia colta dalla follia; una follia che è reazione a un abuso; abuso subito da sconosciuti.
Gli occhi di Moriom guardano ancora in camera, i suoni si fanno ancora rumori nella testa, l'immagine si sfoca.
08/03/2016, 11:30
Sara Galignano