Note di regia de "La Mia Casa e i Miei Coinquilini"
La prima volta che ho visto l’ intervista di Marco Bellocchio a Joyce Lussu sono rimasta impressionata dal rapporto tra loro due.
Joyce Lussu mi ha conquistato per la sua immediatezza e il suo essere senza barriere; una donna anziana bellissima perché quello che ha vissuto si riflette nei suoi occhi.
Un esempio di donna matura con i capelli bianchi, che resta capace, nell’Italia di oggi, di mantenere la sua bellezza naturale senza “rifarsi”.
Il giorno dopo aver visto questa intervista ho cercato ovunque i suoi libri, facendo molta fatica a trovarli.
Mi hanno lasciato senza fiato, probabilmente perché avevo proprio bisogno di sentirmi dire tante cose di cui Joyce parla nei suoi libri e soprattutto nel modo in cui lei ne parla
Quello che mi ha colpito è la differenza della sua scrittura rispetto all’ intervista a Bellocchio e a molte altre interviste.
La sua scrittura è in alcune parti “poesia visiva”, gli ambienti che lei descrive nei suoi libri, ad esempio a Parigi prima che scoppiasse la guerra, sono ambienti di cui si sentono gli odori e le emozioni. E traspare sempre, da quelle pagine, la sua femminilità, che non ha mai cancellato nonostante la durezza della guerra.
Il documentario che ho fatto segue come filo conduttore la lotta di Joyce per ottenere la propria realizzazione personale.
Joyce parla di Emilio Lussu come della “grande ombra”, alla cui protezione avrebbe anche potuto affidarsi: dopo tutto, era stata partigiana, aveva già fatto cose importanti, poteva adattarsi alla tranquillità dei salotti romani. Invece, non si sentiva soddisfatta; quindi a un certo punto ha cercato di uscire da quell’ombra e di avere una vita autonoma importante.
E ci è riuscita.
E’ stata traduttrice, poetessa, pacifista….
Non si è seduta, come dice lei stessa: “Io non ho capito perché la gente in un certo periodo della vita si siede sul paracarro e guarda la vita che passa”.
Vedendo l’ intervista mi sono molto appassionata, e Marco mi ha detto di iniziare a raccogliere del materiale per farne qualcosa collaborando con lui. In seguito, mi ha detto che se volevo avrei potuto fare io un documentario a partire dalla sua intervista.
Ho iniziato a fare tante interviste a persone che l’avevano conosciuta, viaggi in Turchia, in Francia, in Portogallo, ma anche in Italia, nelle Marche, in Sardegna, a Torino, a Milano; e a condurre ricerche storiche per poter capire in modo approfondito i percorsi di Joyce.
Ho cercato di viaggiare come lei, sono andata in Turchia in autobus e ho respirato l’atmosfera delle sue case, nelle quali sono stata accolta dai famigliari calorosamente.
In Sardegna sono andata in alcuni paesini dove lei veniva ospitata da amici e anch’io mi sono fatta ospitare dagli stessi amici.
Principalmente, quello che ho fatto è stato di ricostruire la vita di Joyce, i suoi incontri: con Nazim Hikmet, con Agostinho Neto e i poeti rivoluzionari.
Abbiamo cercato, tramite il montaggio, di far risaltare la sua personalità, che emerge molto bene dalle domande di Marco.
Se guardo questa intervista per intero, mi rendo conto di quanti altri spunti e di quanti argomenti avrei potuto parlare e ne capisco di nuovo la complessità, ma ho deciso di parlare di quello che mi era più vicino, quello che ha colpito me: la sua storia con Emilio, il rapporto con la sua femminilità e il periodo partigiano.
Mio nonno era un partigiano, è stato torturato. In casa, quando si parlava del periodo della seconda guerra mondiale, il nonno si innervosiva molto e ogni volta che gli sembrava che io avessi detto una parola sbagliata mi azzittiva, come se fosse impossibile, per chi non lo aveva vissuto in prima persona, capire quel periodo.
Eppure mio nonno era una persona in altre circostanze molto dolce.
Sembrava quasi violento solo quando parlava di qualcosa che riguardasse la guerra.
Ho rivissuto nelle descrizioni di Joyce alcune emozioni che mi erano arrivate dai racconti dei miei nonni. I quali non avevano avuto le stesse esperienze di Joyce e di Emilio Lussu, per esempio non erano stati in “Giustizia e Libertà”, ma erano riusciti ugualmente a trasmettere, a me piccola, il senso della crudeltà della guerra. E questo, anche psicologicamente, ha reso il mio compito ancora più difficile e impegnativo, perché ricordavo il volto serio e severo del nonno quando mi leggeva le poesie di Primo Levi.
Penso spesso che l’intervista di Marco poteva diventare sicuramente un altro documentario, anche molto diverso.
Mi sono lasciata convincere quando Marco mi ha detto di fare un documentario “autoriale”, di sentirmi libera nella scelta degli argomenti da trattare, e di non cercare ansiosamente una cosa impossibile, e cioè di fare il film che immaginavo avrebbe fatto lui. Queste cose mi colpirono molto, e non ringrazierò mai abbastanza Marco per avermi dato fiducia.
Più volte mi chiedo cosa penserebbe Joyce di questo documentario, e anche cosa ne penserebbe mio nonno.
Marcella Piccinini