Note di regia di "Orecchie"
Sapevo fin dall’inizio che Orecchie, per come l’immaginavo, non sarebbe mai potuto essere una commedia realizzabile per vie produttive canoniche. Il tipo di messa in scena, fatta di lunghe inquadrature, silenzi e tempi interni prolungati, la sfida di provare una comicità incentrata più sui dialoghi che sulle situazioni, il gusto quasi “ebraico” di usare un evento infinitamente piccolo (svegliarsi con un fischio alle orecchie) per riuscire a toccare con leggerezza temi infinitamente grandi, facevano di Orecchie una commedia strana, obliqua, inusuale per il panorama produttivo italiano.
Per questo un’occasione come quella della Biennale College del Festival di Venezia che, a fronte di un super-low budget, garantisce ampia libertà creativa, mi sembrava la perfetta occasione per realizzare questo film. In più, ogni volta che scrivevo delle scene di Orecchie, mi venivano in mente sempre e solo immagini in bianco e nero, come se non riuscissi a figurarlo in nessun altro modo, come se ci fosse bisogno di setacciare le immagini per liberarle dai colori fino a raggiungere la loro crudezza: del volto, della parola, della scena. Il bianco e nero è spietato, come la vita, come una certa comicità che è proprio la cifra di questo film. Aggiunge più verità a una storia che, di per sé, può essere letta anche come allegorica, sospesa, mentre per me è sempre stata profondamente radicata nella realtà (“Fiction is in color, but black and white is more realistic”, diceva Sam Fuller ne Lo stato delle cose, di Wim Wenders). Orecchie è un on the road a piedi lungo un giorno, una tragicomica via crucis attraverso una Roma in bianco e nero, la storia di un uomo senza nome che, attraverso svariati incontri, raccoglie pezzi di un puzzle che alla fine compongono l’immagine di se stesso. E’ una commedia sul senso di smarrimento, di scollamento dalla realtà che ci circonda. Un mondo che spesso appare folle, incomprensibile e minaccioso. Sul timore e il desiderio dell’anonimato che combattono continuamente in ognuno di noi. Su quel fischio alle orecchie che proviamo ogni giorno a ignorare, nascondendolo sotto la vita. Come polvere sotto il tappeto.
Alessandro Aronadio