PMgFF16 - Varcando "Le Porte del Paradiso"
La vita è un viaggio. Un viaggio più o meno lungo che ha però lo stesso epilogo per tutti. C'è chi si concentra sul percorso e chi sulla destinazione, prospettive divergenti che influenzano il nostro muoverci nel mondo, ma nessuno può sfuggire la democratica conclusione.
Le porte del paradiso pur essendo, nella sostanza e visivamente, un documento di pura osservazione, di garbato accompagnamento a una empatica visione, evoca con le parole un punto di vista giungendo poi a suggerirne l'antitesi.
Ma partiamo con ordine.
Guido Nicolas Zingari è un regista e un antropologo; per studio si trova ad andare a Touba, seconda città del Senegal, governata in autonomia da una confraternita sufi (corrente mistica dell'islam sunnita), e durante la sua esperienza riprende quello che vede. Con le prime due lunghe sequenze che aprono il documentario anche noi ci sentiamo in viaggio con lui, prima su un treno, poi su un carretto trainato da un cavallo, la prospettiva simmetrica al centro dello schermo con lo sguardo teso all'orizzonte lungo le rotaie o un sentiero. Lunghi minuti iniziali che permettono di adattarci al ritmo del documentario, che è quello di Touba.
Gran parte dell'attenzione è rivolta a bambini e ragazzini: li vediamo (da vicinissimo) lavorare nei campi, recitare il Corano a scuola, giocare. Li sentiamo scherzare, cantare, riflettere, ma è un commento in particolare che colpisce, colpisce perché all'improvviso ci richiama il titolo e capiamo: "se non ci fosse la morte le persone farebbero quello che vogliono", "se non ci fosse la morte saremmo più liberi". Sono parole dei ragazzi che fanno emergere la loro prospettiva, una prospettiva religiosa che vede le porte del paradiso schiudersi solo per chi durante la vita si è uniformato a delle regole, chi non ha lasciato libero sfogo al suo modo di essere e di sentire, una prospettiva della quale i bambini vedono più i risvolti costrittivi mentre per gli adulti diventa lo stimolo a evolversi, a migliorare tanto da meritare la destinazione desiderata, il paradiso.
A due terzi del film, allora, c'è uno scarto. L'obbiettivo si alza di qualche centimetro e inizia a riprendere un adulto; ma non è un adulto qualsiasi, non è un rappresentante tra tanti; è Taga, un uomo un po' anonimo se non addirittura emarginato, un uomo che vediamo compiere azioni semplici, lavori semplici, spesso solo, e osserviamo, nell'ultima sequenza, percorrere le rotaie che a inizio film ci hanno portato a
Touba, lui quasi ad allontanarsi (stancamente? tristemente? finalmente?) dalla città.
E qui anche il nostro il viaggio si conclude ma con un inatteso ribaltamento di prospettiva che spiazza: "Puri venimmo dal nulla e ce ne andammo impuri. Lieti entrammo nel mondo e ne partimmo tristi". Questa citazione scritta in calce, del poeta persiano (laico) Kayyam, cambia totalmente l'ottica 'redentrice' di cui il film è fin qui pregno: siamo sicuri di nascere corrotti dal peccato originale e destinati a una vita impegnata a meritare il paradiso? Non potrebbe essere forse il contrario?
Chi ha voglia di porsi domande se le ponga, sembra abbozzare il regista, ma non è così necessario ... Per gli altri basti aver scoperto Touba, e soprattutto i suoi abitanti.
11/03/2017, 23:05
Sara Galignano