Note di regia di "Cinema Grattacielo"
Anno 1959: mentre a Roma Federico Fellini gira La dolce vita, nella sua Rimini arriva a compimento la costruzione del Grattacielo. Entrambi simbolo di un’epoca, raccontano pienamente l’irruzione della Modernità: il cinema e l’architettura del periodo esprimono gli anni del boom economico italiano, ne incarnano i valori e le speranze. A quasi sessant’anni dalla sua costruzione, il Grattacielo di Rimini ha cambiato pelle e oggi ospita una umanità quanto mai eterogenea: musicisti e pittori, gelatai e liberi professionisti, commercianti cinesi e ambulanti africani, pescatori tunisini e studenti universitari.
Abitandoci mi sono reso conto di quale ricchezza e di quali problematicità fosse custode. Il suo essere “in vista” non concerne solo l’altezza, quanto i potenti immaginari che ne hanno segnato di volta in volta un’idea di rifiuto o esaltazione, condanna o curiosità, vergogna o visionaria leggerezza... Da ragazzino era un irraggiungibile albero della cuccagna. Il gioco più bello di una città luna-park, l’astronave di una vacanza che sembrava non finire mai. Lo guardavamo dal basso e aspettavamo di vederne crescerne altri: anni in cui si profetizzava un grattacielo per ogni città della costa e a Rimini, capitale europea della vacanza, si parlava addirittura di una «città di grattacieli». Lui svettava sulla metropoli balneare, con la sue pareti scintillanti, eppure tragicamente erette sulle ferite della guerra, laddove le bombe si erano più accanite. E proprio dalle profonde ferite della guerra aveva preso forma l’impresa impossibile, una sorta di American Dream di cui si fece «profeta» l’allora sindaco comunista Veniero Accreman, sollecitato dall’architetto profugo istriano Raul Puhali, che aveva già realizzato edifici a torre sulle due sponde dell’Adriatico, a Fiume (nel 1940) e a Trieste.
Oggi osservare gli interni del Grattacielo significa attraversare la storia del design italiano del Novecento. Appartamenti di sette tipologie differenti per ogni piano, alcuni immensi, con decine di stanze, uniti da manomissioni e da fusioni improprie. Altri piccolissimi, una stanza ricavata fra il cielo e il cemento. Duecento case, una sopra l’altra, tutte così vicine... Una griglia segreta di aggregazioni, risistemazioni, accorpamenti che evoca l’antico desiderio dell’uomo di ricreare il suo spazio di vita. Ma anche un reticolo di lingue che richiama l’esperienza di Babele, nella possibilità di convivenza e di rispetto, di comprensione e di tolleranza. Così Cinema Grattacielo non è solo la storia di un edificio, e della sua città, ma anche una riflessione sui nostri mutanti modi di vivere.
Il film utilizza diversi materiali d’archivio, e la molteplice pelle delle immagini costituisce una linea narrativa autonoma. Il lavoro mostra la sua lenta modalità di produzione e i cambiamenti tecnologici che si sono susseguiti, per cui utilizza materiali storici (girati in 8, 16, 35 mm), riprese con camere e cassettine MiniDV o DvCam. Parti in Betacam, altre in HD, o girate con le ultime GoPro. Una molteplicità di tessiture dell’immagine che esprime anche una molteplicità di punti di vista, di dialoghi possibili fra l’autore, il grattacielo stesso, i suoi abitanti. Anche perché il Grattacielo “parla”, e la voce dello scrittore Ermanno Cavazzoni (ultimo sceneggiatore di Federico Fellini, ne La voce della luna) ne incarna i dubbi, le solitudini, le paure: lo scarto fra un’icona della modernità architettonica e la sudata vita quotidiana di una vasta comunità.
I potenti immaginari (che possa involarsi, crollare, incendiarsi, sradicarsi per un terremoto o uno tsunami...), come le paure sociali e antropologiche (che sia un covo di malaffare, tenebroso e insicuro) sono espressi dal dialogo, a volte tenero, altre surreale, fra il grattacielo e i suoi abitanti, nel tentativo di colpire al cuore la realtà per rivelarla nei suoi punti più contraddittori. Un film in equilibrio fra esigenze contrapposte, documentarietà e reinvenzione, testimonianza e superamento dei limiti; un «cinema performance», in cui la capacità di giocare con la forma consente, lo speriamo, di osservare sensi laterali, alcune dimensioni invisibili del Grattacielo, le sue tracce pulsionali. Sguardi capaci di valicare l’evidenza di una complessa macchina abitativa, per osservarne i suoi aspetti più sotterranei e desideranti.
Marco Bertozzi