Note di regia de "Il Risoluto"
Mi sono imbattuto in Piero per caso, mentre giravo il film The Stone River, nel Vermont.
Piero ha iniziato ad aprirsi e a raccontarmi la sua storia, in particolare il periodo della guerra. E non si è fermato più. Per un qualche misterioso motivo era arrivato il momento di riportare alla luce per la prima volta vicende che aveva tenuto per sé per tutta la vita e nulla sembrava più fermarlo. Neppure lo sguardo incredulo della moglie Lee Aura che, durante il pranzo, non si capacitava che non le avesse mai raccontato niente di tutto ciò. Uno dei motivi che mi ha a lungo scoraggiato dal realizzare un film su una storia di per sé tanto straordinaria, è la difficoltà di mettere in scena i ricordi di un uomo di 87 anni. Come rappresentare filmicamente eventi così lontani senza cadere nel didascalico, nel banale, nell'espediente? Ebbene, dopo aver riflettuto a lungo, ho capito di dover tornare a ciò che più mi impressiona nella storia di Piero e che mi ha inizialmente conquistato: la potenza del suo racconto e del suo modo del tutto personale di raccontare, in un linguaggio che alterna continuamente l'italiano all'inglese, a seconda degli strati di memoria cui attinge. E dunque ho deciso di affidarmi al metodo di narrazione più semplice: il film è basato su una lunga intervista, in cui Piero racconta e riflette sulla sua vita. Una semplicità comoda solo in apparenza, che nasconde in realtà una sfida complessa: quella di valorizzare al massimo la potenza di un racconto, che è insieme anche una lunga confessione. I differenti capitoli sono intervallati da momenti di vita quotidiana che ritraggono Piero nell'oggi ma ogni scena è legata in maniera diretta o metaforica alla testimonianza che abbiamo appena ascoltato o che ascoltiamo nel capitolo successivo. Includere brani di interviste in un film documentario è una prassi comune e a volte banalizzante. Fondare un film su una lunga intervista frontale diventa invece per me una scelta stilistica estrema, con un significato particolare. La staticità dell'inquadratura permette allo spettatore di focalizzarsi sulle più piccole variazioni emozionali di Piero. La ricerca della giusta parola, il gesto, il piccolo movimento sulla sedia, assumono una profondità diversa. Tutto nel suo modo di esprimersi è cinematografico: la confessione, le parole, le espressioni del volto, i gesti, le battute e persino i lunghi silenzi intervallati dal tamburellare delle dita sul tavolo. Ho scelto di rappresentare Piero nell'ambiente naturale in cui si trova a suo agio, a casa sua. Intorno a lui la moglie, Lee Aura, di cui percepiamo continuamente la presenza e il cui ruolo fondamentale si svela solo nel finale. L'intervista, o meglio le interviste, sono state girate all'interno di scenari domestici che si modificano a seconda dei periodi della vita, affrontati in maniera cronologica. Quello più drammatico della guerra, nel sottosuolo della casa, con la luce bassa di una lampadina che anche visivamente contribuisce a mettere in scena una sorta di confronto di Piero davanti alla propria coscienza. Il film è nato dalla particolare relazione che ho stabilito con il protagonista e questo è divenuto percepibile allo spettatore, perché corrisponde a una realtà comunque difficilmente eludibile. Spesso, quando Piero racconta, mi chiede conferme o opinioni. Altre volte mi rimprovera, si innervosisce o si prende gioco di me, in maniera gioviale. Oppure ha un accesso d'ira, perché pensa di non essere compreso o creduto. Tutto questo è diventato parte integrante e fondamentale del film. In parte sono stato io a maturare l’idea di fare del racconto di Piero un film. Mi sono forse reso conto dell'importanza di raccontare la storia da un lato che non è necessariamente quello cui siamo abituati, cioè quello di coloro che hanno conquistato il diritto alla parola col loro sangue e con il merito di aver fatto la giusta scelta etica. E’ raro sentir parlare i reduci della Repubblica di Salò e in particolare di un gruppo fascista tristemente famoso per le sue gesta efferate come la Xma Mas. Come è raro ascoltare la testimonianza di un SS nazista. Un po' perché loro per primi preferiscono tacere. Un po' perché noi stessi preferiamo che tacciano e siamo rassicurati dal loro silenzio. Se siamo abituati ad ascoltare il racconto delle vittime della barbarie fascista e ci risulta facile partecipare della loro sofferenza, è invece molto raro sentir parlare in maniera così franca un carnefice e poter entrare nei meccanismi psicologici che hanno determinato le sue azioni. Nei rari casi in cui accettano di raccontare, spesso ci troviamo di fronte alla testimonianza di un nostalgico incapace di fare i conti con la realtà o di un soldato che cerca di risolvere i propri conflitti di coscienza trincerandosi dietro ordini impartiti dai superiori.
Piero invece è conscio della sua colpa, perché vi ha riflettuto sopra lungamente, con senso critico. Al tempo stesso, quando è entrato nei Risoluti aveva 14 anni e sa di essere stato lui stesso la prima vittima dell'ideologia fascista per la quale ha combattuto. La sua età verde gli conferisce uno status particolare: quello di qualcuno che non era responsabile fino in fondo dei suoi atti. Forse è per questo che ha minori remore nel raccontare con sincerità gli avvenimenti di cui quel suo “sé”, così diverso dal Piero di oggi, si è trovato a essere protagonista in negativo. E poi ha uno sguardo unico, perché ha passato la sua “seconda vita” negli Stati Uniti, lontano da quell'Europa che per decenni ha convissuto (bene o male) con la tragedia del suo passato. Dunque parla come qualcuno totalmente “vergine” rispetto al dibattito politico-culturale che ha marcato gli ultimi cinquant'anni di storia europea. E ciò rende la sua voce straordinariamente interessante. La vicenda personale di Piero mi sembra avere un valore particolare perché è estremamente rappresentativa della storia di migliaia di adolescenti che furono arruolati nelle brigate fasciste al crepuscolo della dittatura Mussoliniana. Un giovane scarsamente scolarizzato, proveniente da un ambiente familiare degradato, trova una sua collocazione identitaria nell'adesione ai principi del fascismo, dove lo spirito cameratesco del gruppo, forgiato intorno all'esaltazione della forza e della violenza, riempie i vuoti lasciati dalla latitanza di famiglia, scuola e società. Non è forse questa la storia di milioni di Italiani, abbandonati a sé stessi, che ebbero la sfortuna di crescere negli anni Venti e Trenta, ma anche quella di milioni di Europei che vissero all'ombra di altri regimi totalitari o che comunque ne subirono la fascinazione?
Se vogliamo, la storia di Piero è parte integrante della storia di tutti i fascismi, intesi in maniera plurale e ampia. E' proprio la comprensione di ciò che mi ha convinto a lanciarmi nell'impresa di realizzare questo film, con l'intenzione di confrontarmi con la zona d'ombra di Piero, o meglio con la sua capacità di incarnare la zona d'ombra presente in tutti noi e che ancora persiste latente nella nostra società.
D'altro canto, invece, sono stati i tempi a mutare e ad aver reso improvvisamente urgente e attuale un film imperniato su una storia lontana settant'anni. Molte cose sono intervenute a cambiare il panorama dell'Europa negli ultimi cinque anni. La grande crisi e l'avanzata dei movimenti di estrema destra: Alba Dorata in Grecia, il Front National in Francia, la Lega Nord in Italia, il Jobbik in Ungheria... Ma anche fenomeni relativamente nuovi, come il fascino mortifero che gruppi combattenti dai forti connotati identitario/religiosi come Daesh riescono improvvisamente a esercitare su migliaia di giovani delle periferie metropolitane del continente. Da un lato la creazione di un'identità nazionale/razziale/religiosa totalizzante e la propaganda ossessiva mirante alla strutturazione paranoide di un nemico. Dall'altro l'educazione all'obbedienza e alla violenza, come strumento di annientamento della personalità prima, e del nemico poi. Sentire Piero che parla del passato ci riporta in maniera sconvolgente all'oggi. Ascoltando il modo in cui descrive il suo reclutamento, il suo indottrinamento, la sua formazione da paramilitare, l'educazione alla violenza applicata su base sistematica, mi sono accorto improvvisamente della drammatica attualità della sua storia. E non avrei fatto questo film se non fossi più che certo della sua capacità di parlare direttamente al nostro presente.
Una riflessione particolare la merita l'episodio del tesoro di Mussolini.
“Cosa sai dell'Oro di Dongo?” mi ha chiesto un giorno Piero al telefono. “Beh, ne ho sentito parlare, ma di certo non so dove si trova...!” - gli ho risposto con un'ironia nemmeno troppo dissimulata. “Io invece lo so dove si trova – mi ha replicato senza un briciolo di enfasi – perché sono stato proprio io a portarcelo...”. La storia che Piero mi ha raccontato è talmente incredibile e sconcertante che può, a un certo punto, far dubitare dell’affidabilità del suo racconto. Si tratta di un segreto che desidera svelare oppure di un’invenzione? O oppure ancora di uno scherzo della memoria e della suggestione? Dalle ricerche che ho potuto effettuare emergono una serie di riscontri che sembrano supportare la sua storia. Di sicuro non è tutto inventato e c'è una buona base di verità. Ma su questo è necessario essere chiari: il film non vuole essere un'inchiesta giornalistica alla ricerca di uno scoop storiografico. L'affaire dell'oro di Mussolini mi interessa solo marginalmente, nella misura in cui si inserisce nell'odissea di un adolescente alle prese con vicende più grandi di lui. E credo che non stia nemmeno a me, in quanto autore, di dover prendere una posizione sulla veridicità del racconto. Spetterà agli storici casomai, se lo riterranno opportuno, di approfondire la ricerca documentale. Lo stesso interrogativo che è sorto in me lo consegno allo spettatore lasciando che sia lui a darsi delle risposte o che magari rimanga nel dubbio. Ciò che più mi interessava raccontare, in fondo, era il vissuto personale di un “adolescente” di 87 anni alle prese con il suo difficile passato, non una realtà oggettiva. La miglior chiave di lettura della poetica del film la dà a mio avviso Piero stesso nel finale del film: “se non guardi aldilà di ciò che hai di fronte agli occhi, allora non vedrai nulla”.
Giovanni Donfrancesco