Note di regia di "Carlo Cafiero, il Figlio del Sole"
L’idea di realizzare un documentario su Carlo Cafiero ci è venuta leggendo una lettera che il suo biografo Pier Carlo Masini e lo scenografo Ugo Ronfani spedirono nel 1953 alla rivista Cinema Nuovo, diretta da Guido Aristarco. Poche righe che dopo aver riassunto la breve e intensa vita del rivoluzionario di Barletta (1846-1892), terminavano con un auspicio: “Cafiero è il portavoce di tutta una generazione di giovani italiani che giungono a maturità quando il Risorgimento è già concluso. Il suo caso, il caso di un giovane pugliese figlio di facoltosi agrari, è quello di altre centinaia di giovani che voltano le spalle alla loro classe, all’Italia ufficiale, per andare incontro al popolo lavoratore, al proletariato del nord e alle plebi del mezzogiorno. Cafiero è uno dei più ardenti interpreti di questo dramma collettivo. La sua conversione al socialismo avviene a Londra nel 1871, sotto l’effetto di vibrazioni che scuotono non solo la sua coscienza, ma tutto il mondo: da una parte lo spettacolo della miseria crescente dei quartieri operai nella metropoli del capitalismo industriale, dall’altra il prestigioso esempio della Comune di Parigi. Entrato in contatto con i gruppi rivoluzionari, incontratosi con Marx e Engels, Cafiero ne diventa l’emissario per l’Italia. A Napoli, sfidando le prime persecuzioni poliziesche, inizia tra i lavoratori del porto, fra gli artigiani, fra i disoccupati, fra masse socialmente disgregate ma indiscriminatamente colpite da un cronico fenomeno di pauperismo, una paziente opera di organizzazione e di educazione. Poco dopo, in Svizzera, soggiogato dalla forte personalità del Bakunin e persuaso dalla sua recente esperienza politica, Cafiero abbraccia la causa del comunismo libertario. S’inizia così la fase più agitata della sua breve esperienza: la definitiva rottura con la famiglia, la vendita dei beni e la devoluzione del ricavato per le necessità del movimento, l’episodio della Baronata, una colonia di internazionalisti esuli in Svizzera, il matrimonio al consolato italiano di Pietroburgo con la nikilista russa Olimpia Kutusoff. Nel 1876, a Firenze, partecipa al congresso nazionale della Federazione italiana dell’Internazionale, svoltasi in maniera drammatica a causa dell’intervento della polizia. Fu probabilmente in detto congresso che venne decisa un’impresa clamorosa: l’occupazione di una zona dell’Appennino meridionale da parte di una formazione armata di internazionalisti. L’impresa fu preparata e guidata da Cafiero, la zona prescelta l’altipiano del Matese, già centro del brigantaggio tra il Sannio, il Molise e la Terra di Lavoro. L’allora ministro degli Interni Nicotera fece mobilitare ingenti forze militari per accerchiare gli insorti che avevano occupato i paesi di Letino e Gallo, dove fra l’entusiasmo della popolazione distribuiscono chinino e tabacco, incendiano carta bollata e ogni documentazione relativa alla proprietà, abbattono i simboli del potere statale e della monarchia, spezzano i contatori della tassa sul macinato […] Gli insorti vengono sorpresi e catturati, Cafiero è arrestato. Seguono lunghi mesi di prigionia in attesa del processo svoltosi nell’agosto del 1878 a Benevento. Quando i giurati li assolvono, una folla di lavoratori accoglie con commoventi dimostrazioni di affetto gli internazionalisti liberati. Cafiero prende la via dell’esilio. Poi un tentativo di entrare clandestinamente in Italia con conseguente arresto, depressione morale, tentato suicidio nelle carceri di Milano. La follia comincia a insidiarlo e lo travolge definitivamente in drammatiche circostanze nel 1883. C’è in Italia un regista che, senza affidarsi a comode divagazioni della fantasia, voglia trarre dalla biografia di Cafiero un film che sia un quadro di quel tempo, dei cafoni del Matese, degli operai di Napoli e di Milano, dei compagni di Cafiero, delle donne che affollano il dramma, siano esse semplici popolane o rivoluzionarie di professione, un film che sia una visione della nostra terra, dalla Puglia bruciata al carsico Matese? Noi vogliamo sperarlo”.
Erano gli anni di film come Miracolo a Milano di Vittorio de Sica; Viaggio in Italia di Roberto Rossellini; Achtung Banditi! di Carlo Lizzani; Processo alla città di Luigi Zampa; stavano per uscire Senso di Visconti e La Pattuglia sperduta di Pietro Nelli; per Masini e Ronfani era arrivato il momento di rivisitare in chiave neorealista anche il cinema storico “finora caratterizzato soltanto dalla retorica e dall’artificio, dalle banalità e gli arbitrii, in un clima di pesante monotonia”. Ma nessun regista ha mai raccolto il loro invito. Mettendoci sulle tracce di quel possibile film, abbiamo però trovato qualche frammento: una sceneggiatura sui fatti insurrezionali del Matese scritta per la Rai nel 1982 da Ettore Scola e Almerigo Alberani intitolata La Repubblica di Letino e mai tradotta in pellicola; uno sceneggiato trasmesso in quattro puntate su Rai2 tra il settembre e l’ottobre dello stesso anno tratto da Il Diavolo a Pontelungo di Riccardo Bacchelli per la regia di Pino Passalaqua, dove accanto al protagonista Bakunin (Paolo Bonacelli) c’è nel ruolo di Cafiero un magistrale Flavio Bucci; un film tedesco del 1970 di Peter Lilienthal intitolato Malatesta, con un Cafiero interpretato da Peter Hirsche che appare per un minuto rinchiuso in manicomio. Siamo stati a Locarno a farci raccontare dagli anarchici del circolo Carlo Vanza le vicende della Baronata, la villa sul lago che con i soldi di Cafiero e un anziano Bakunin nel ruolo del vecchio rivoluzionario stanco e deluso, sarebbe dovuta diventare luogo di rivoluzione permanente; da Bruno Tomasiello, autore del volume La Banda del Matese: i documenti, le testimonianze, la stampa dell’epoca, ci siamo fatti guidare a San Lupo, Gallo, Letino, nei luoghi in cui in quei giorni di aprile del 1877 Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Napoleone Papini e una ventina di altri internazionalisti tentarono di sollevare le popolazioni in nome della rivoluzione sociale; a Imola, all’archivio storico della Federazione Anarchica Italiana, abbiamo scovato conservata in un cassetto la pipa di schiuma bianca che Cafiero fumava senza sosta durante la sua degenza e il soggiorno in città; a Nocera siamo stati nel manicomio dove si è spento intorno a mezzogiorno di domenica 17 luglio 1892 a causa di una tubercolosi intestinale. Ne è venuto fuori un ritratto soprattutto umano che nulla toglie al Cafiero politico. Ha scritto di lui Giacinto Stiavelli sulle colonne de L’AvantI! del 26 settembre 1903: “La bella figura che io oggi voglio ricordare ai lavoratori d’Italia – perché il ricordare certi uomini e certi avvenimenti fa bene – è quella di Carlo Cafiero, uno dei primi che parlarono e scrissero di socialismo quando il solo parlarne (guai poi a scriverne!) faceva tremare le vene ai polsi alle classi dirigenti […] Girava di città in città per diffondere il verbo del socialismo, il gran verbo, per far proseliti alla sua causa, che è quella di tutti i miseri, e dovunque distribuiva opuscoli, giornali, manifesti, dovunque teneva discorsi, alla buona, perché parlava agli indotti, ma pieni di senno, e dovunque lasciava denari, i quali dovevano servire o ad alleviare miserie o a tener viva la propaganda delle idee nuove”.
Nel portare in giro questo documentario, il cui titolo è un omaggio al lavoro di Pier Carlo Masini che titolava il primo capitolo della biografia di Cafiero Il Figlio del Sole, vorremmo avere la presunzione di fare nostre e di rilanciare le parole scritte da Malatesta nel 1892: “Carlo è soprattutto grande per la sua natura intima, per il tesoro di affetti, per l’ingenuità della fede che era in lui. Non bisogna che queste memorie siano perdute, soprattutto oggi che v’è bisogno di elevare il livello morale degli anarchici, che bisogna reagire contro l’egoismo e la brutalità che ci invade, per tornare al disinteresse, allo spirito di sacrificio, al sentimento d’amore di cui Carlo fu così splendido esempio”. Perché è triste pensare che di Carlo Cafiero, uno dei padri del socialismo italiano in senso lato, oggi non esista neppure una tomba: sepolto con gli abiti da pazzo in una fossa comune. Destino forse inevitabile per chi, nella seconda metà dell’Ottocento, sognava di volare, teorizzava la spiritualizzazione della materia e al medico che quotidianamente lo visitava diceva qualche mese prima di morire: “Io sono felice: ho menato vita errabonda, ho sciupato un grosso capitale, mi sono ridotto ad una modestissima pensione, ma sono contentissimo perché mi si è aperta la luce e ho conosciuto la ragione ultima di tutte le cose esistenti”.
Ezio Aldoni e Massimo Lunardelli