Note di regia di "Notti Magiche"
Sono anni che riempio quadernetti di appunti, ricordi, invenzioni, ritrattini, immaginando una folla di personaggi per un ipotetico film sul mito del cinema così come lo avevo vissuto quando ero sbarcato a Roma da ragazzo. Non sapevo ancora cosa sarebbe diventato tutto quel materiale, ma è sembrato subito naturale affidare il punto di vista a tre aspiranti sceneggiatori finalisti di un premio, diversi tra loro e provenienti da mondi lontani, ma affratellati e rivali in nome dalla comune passione cinephile declinata da ciascuno in modo proprio. Ecco quindi Antonino, messinese ampolloso dal ferreo rigore accademico ma disposto a lasciarsi ammaliare fino a corrompersi; Luciano, dai quartieri operai di Piombino, orfano vitale, famelico e sfacciato; Eugenia, solitaria rampolla negletta di un’austera famiglia del potere romano, che raccatta gli altri due nella sua mansarda. Il cuore del film è nel fervore incredulo di questi tre ammessi con benevolenza alla corte di certi leggendari autori della stagione dorata, qualcuno ancora seducente e inarrivabile, qualcun altro stanco o disperato, circondati dal sottobosco di ammiratori, emuli e scrocconi. Nell’accompagnarli nella giostra di lusinghe ed insidie, promesse e raggiri, alla scoperta di quel mondo glorioso e miserabile, sublime e triviale, mentre la devozione si trasforma man mano in sgomento, in burla irriverente, in cocente disillusione. Il tutto in uno scenario affollato come un racconto balzacchiano, come in una commedia all’italiana, come in un album di vignette a colori disegnato da Scola, da Scarpelli, da Fellini, da Zavattini. Questo film è quindi un atto d’amore, e forse di gratitudine, nei confronti di quello che probabilmente è stato il fenomeno culturale di maggiore rilevanza internazionale dell’Italia contemporanea, ovvero il nostro cinema, i cui protagonisti erano ancora in gran parte attivi e potenti - una specie di inespugnabile ancien régime - negli anni della mia, della nostra formazione e nell’estate narrata nel film. Ma guardandolo, adesso che è finito, mi rendo conto di quanto sia stato liberatorio ripercorrere quella mitologia anche con spirito canzonatorio, umoristico. Come fosse in fondo un ultimo saluto, come per saldare per sempre un debito prezioso ma anche ingombrante. Ed infine questa è stata un’occasione per giocare con l’essenza stessa del raccontare, dello scrivere, del fare i film: mescolare verità e invenzione, ricordi reali e romanzati, incorniciare tutto in una trama, una lunga notte al Comando dei Carabinieri, intorno al mistero di un cadavere, ad un’indagine. Il piacere di praticare gli arnesi del mestiere, nel ripercorrere insieme a quei tre immaginari aspiranti sceneggiatori i ricordi veri intrecciati alle bugie di frenetiche giornate e nottate magiche, comiche, minacciose che ancora tornano ad affacciarsi in certi miei sogni.
Paolo Virzì