Note di regia di "Diario di Tonnara"
Durante un viaggio di lavoro, alcuni anni fa, sono arrivato nel borgo di Bonagia. Notai subito il grande edificio sul porto, dinnanzi al quale erano adagiate alcune barche usurate dal tempo e dalle intemperie. I primi indizi mi raccontavano che quella tonnara aveva perso la sua originaria funzione, diventando un albergo.
Trascinato da quel fascino senza tempo, il desiderio di conoscerne la storia mi condusse a dare inizio alle prime ricerche su un luogo che in un tempo non troppo lontano aveva rappresentato il centro di qualcosa di importante per la gente del posto. Fino ad allora avevo visto e sentito parlare solo della tonnara di Favignana, come la Regina del Mediterraneo, ma mai di questo borgo a pochi chilometri da Trapani.
Fu così che mi ritrovai a leggere tante testimonianze, racconti e leggende, tra cui anche il diario di un sub che aveva lavorato nella tonnara di Bonagia. Un libro da cui il documentario prende ispirazione, il “Diario di tonnara” di Ninni Ravazza.
Alla lettura della sua esperienza, mi si spalancò davanti un mondo a tinte quasi mitologiche, popolato da eroi e dalle tradizioni millenarie che questi pescatori - nella loro semplice ricerca di sostentamento - portavano avanti di padre in figlio.
Com’era possibile che tutto questo fosse scomparso? Come poteva un modello millenario scomparire così, nel silenzio, accecato dal mondo industriale? Avrei dovuto assolutamente raccontare tutto questo, per provare a fermare il tempo. Per far rivivere una comunità e darle voce.
Conobbi Ninni Ravazza in una calda giornata di luglio a Trapani. Mi ero trasferito in Sicilia da poco più di un paio di mesi e il mio viaggio alla ricerca dei rais e dei tonnaroti ormai era iniziato. Fu una costatazione a colpirmi più di altre, nella prima fase del mio percorso di ricerca: chi aveva fatto almeno una stagione in tonnara, aveva un ricordo meraviglioso della sua esperienza e avrebbe fatto di tutto per tornarci, quasi come si ritorna ad una madre.
Le radici di tutto questo, andai a cercarle immediatamente tra il materiale di repertorio preziosissimo dell’Archivio Luce. Con mia sorpresa, mi resi conto che la maggior parte dei documentaristi del passato si erano confrontati con la tonnara e questo mi diede un’ulteriore conferma dell’importanza di questa tradizione.
Notai però che la maggior parte dei prodotti video del passato si concentravano sulla mattanza, prendendo poco in considerazione l’aspetto che a me invece interessava indagare di più. Dalla lettura del Diario di Ravazza, avevo mutuato il desiderio di mettere sotto la lente di ingrandimento la comunità, il senso del lavoro e la ritualità che soggiaceva ai ritmi propri della pesca in sé e per sé.
In mano avevo un diario le cui giornate venivano descritte una per una. Il lavoro, era certo, non avrei potuto esimermi dal raccontarlo. Il come, avrebbe fatto la differenza.
In Sardegna, la mia terra d’origine, sapevo che esisteva una sacca di resistenza a Carloforte, un piccolo lumicino in mezzo al buio che dovevo seguire per avere il quadro completo. Fu in quella tonnara che ritrovai il lavoro vero, quello di avventurosi ventenni ed esperti attempati che continuavano a portare avanti, con ottimi risultati, una tradizione.
Il lavoro ovviamente era cambiato. Si era trasformato grazie all’automazione che aveva sostituito la tradizione. Ma non del tutto. A Carloforte ritrovai la scaramanzia, la religiosità, il vivere assecondando i tempi naturali e soprattutto il senso di comunità.
Ormai ero totalmente immerso in un mondo del quale mi sentivo parte. I protagonisti mi stavano dando la possibilità di raccontare le loro storie, concedendomi un’immensa fiducia.
Furono i mesi di dialogo con i rais e l’osservazione del lavoro sulle reti ad aiutarmi a capire che le tradizioni, la religiosità e la scaramanzia erano un modo per cercare di ottenere la benevolenza degli dei, qualsiasi fossero. La tonnara, la trappola fissa che una volta posizionata non può essere spostata, era in balia delle forze del mare e della natura che se si fossero messe di traverso, avrebbero compromesso il sostentamento.
La natura, per chi vive la tonnara, può assumere le sembianze della furia del dio del mare o di qualche bestia degli abissi che spaventa i tonni di passaggio e, proprio per questa sua essenza fortemente volubile, ha bisogno di rituali che aspirino a farsela amica, allontanando terribili rischi.
Quando mi trovai davanti alla scelta di utilizzare o meno le immagini di repertorio e i documentari realizzati dai grandi documentaristi del passato tra i quali De Seta, Quilici, Alliata, ricordo che fui attraversato da tanti dubbi. Mi erano stati di ispirazione durante le riprese e, alla mia prima esperienza di regia, li vivevo come intoccabili.
Decisi che Diario di Tonnara non poteva fare a meno di quelle immagini che con il loro sguardo cinematografico, meraviglioso e poetico, restituivano la magia alla tonnara.
Ho corso il mio rischio. E ho cercato di raccontare tutti i riti del mare che ruotano intorno alla vita dei proprietari di tonnara, dei rais e anche dell’ultimo dei tonnaroti, cercando di dipingerli come quello che sono: personaggi mitologici in grado di mettere la propria vita e le proprie risorse a disposizione della comunità. Ho trovato assonanze con i riti della terra, legati alla fertilità, cercando di legarli insieme ad un unico filo conduttore.
Un ultimo intento, con Diario di tonnara. Cercare di offrire uno sguardo sul lavoro faticoso da cui non ci si può sottrarre, sulla ricerca di un sostentamento che nella società odierna è dato per scontato. La dicotomia del lavoro che prevede il sacrificio di una specie per il benessere di un’altra, il tempo scandito dai cicli naturali sono punti fermi sui quali oggi credo si debba ricominciare a riflettere e Diario di tonnara prova a offrire un suggerimento in tal senso.
Giovanni Zoppeddu