Note di regia di "Una Casa sulle Nuvole"
La mia è la generazione delle valigie. Sì, gli armadi non mi appartengono. Solo dopo aver letto il racconto breve di Igiaba1 mi rendo conto, accidenti, ha ragione lei, io appartengo alla generazione delle valigie. Sono sempre lì pronte, stanche, piene di polvere, piene di vite vissute, e pesanti. Ogni volta che vado a comprare qualcosa mi chiedo “ma questo oggetto può essere portato via?” e se la risposta è negativa lascio perdere. Forse mio figlio vorrebbe avere un armadio. Tra il mondo delle valigie e quello degli armadi c’è un abisso immenso. Fatto anche delle parole che i nostri figli non comprendono perché non trasmettono nessun’ immagine a loro.
Quando dico rah per me significa un filo infinito che attraversa gli orizzonti e viene accarezzato da ogni spiga di grano dei campi della mia terra, quando dico rah provo a sentire come lo pronuncia lui, il mio poeta preferito. Ma rah forse per mio figlio è la strada. La strada è molto diversa. Io raccolgo tutti i semi di grano in una valigia. In un armadio non c’è posto per le mie confusioni. L’armadio è ordinato, stabile, è eterno. Ma io sono disordinata, instabile, e temporanea.
In Italia ci sono oltre un milione di bambini che appartengono alla “seconda generazione”, bambini nati qui da genitori migranti o arrivati quando erano molto piccoli. Esistono racconti e narrazioni di questa seconda generazione: hanno lo strumento della lingua italiana e hanno bisogno di trovare la propria identità. Razionalmente, hanno anche bisogno di allontanare noi, ciò che li marca come stranieri. Raccontano di noi genitori per poter aprire nuovi orizzonti. Hanno un futuro lontano.
Mio figlio, nella mia terra, l’Iran, non avrebbe futuro. è figlio di seconda generazione. Mio marito è afghano. Il governo iraniano parla di 260.000 bambini figli di migranti, ma molto probabilmente il loro numero arriva a 700.000 e non hanno documenti, non hanno assistenza sanitaria, non possono andare a scuola, non esistono. E se per le seconde generazioni in Italia il futuro è difficile, per loro il futuro sta in un immenso vuoto.
Noi raccontiamo di loro?
Noi delle valigie stabiliamo la nostra identità percorrendo un viaggio a ritroso. Parliamo spesso del nostro vissuto nostalgico, ma non riusciamo a comprendere le esigenze dei nostri figli.
Per me questo film è un pol, nella lingua di mio figlio “ponte”. Forse mio figlio vuole un armadio, ma vorrei prima fare con lui una valigia. Sepanta, ho sentito l’abisso tra la mia e la tua generazione, ho deciso di costruire un ponte. Forse un giorno deciderai di attraversarlo, forse no. Ma almeno io ho provato.
La generazione delle valigie racconta poco, è molto indaffarata, la valigia pesa, anche quando si dorme si sente la sua pesantezza.
Sapevamo fin dal principio che voi nelle nostre valigie non entrerete mai. E forse anche le nostre valigie rimarranno immobili, sopra un armadio, sopra un petto, sopra un pensiero.
Soheila Javaheri Mohebi