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STEFANO GROSSI - "L'Albania si avvicina all'Italia... o viceversa?"


Il regista torinese racconta il suo ultimo documentario, "Rotta Contraria", presentato al Bif&st e ora in tour in tutta Italia


STEFANO GROSSI -
Stefano Grossi
Un documentario sui ragazzi albanesi (e italiani emigrati in Albania) che hanno trovato un lavoro ben retribuito nei call center e grazie a ciò riaccendono le loro speranze nel futuro, uno sguardo sull'Albania odierna e su quella passata, sui legami (in molti sensi diversi) tra quel paese e l'Italia: tutto ciò e molto altro è "Rotta Contraria" di Stefano Grossi. Ne abbiamo parlato con lui.

Come mai questo documentario proprio ora?

In un periodo in cui si parla sempre di migrazione, che è il tema più dibattuto in questo momento, a me è interessato fare un film su questo ma da una prospettiva rovesciata: non la migrazione da parte di chi la subisce, io voglio raccontarla da parte di chi la esperisce, la vive, è costretto a migrare.
La migrazione italiana verso l'Albania è dolorosa perché composta principalmente da giovani meridionali, sono persone che fanno una scelta dratisca nelle loro vite per una necessità materiale inappellabile: per loro è dura andare in Albania, anche se lì con uno stipendio medio si riesce a vivere molto bene. Ma è un paese estremamente arretrato per quanto riguarda i servizi, i diritti sul lavoro, la vita quotidiana, che è corrotto e infiltrato dalla mafia in ogni aspetto, politico e imprenditoriale... Questo quadro mi ricorda molto l'Italia, no? Ma non sono gli albanesi che fanno passi avanti e si avvicinano a noi, siamo noi che arretriamo verso di loro, temo...

In questo il paese balcanico è esemplare.

L'Albania è passata senza soluzione di continuità dal turbo-Stalinismo al turbo-liberismo, è un laboratorio a cielo aperto, un evidenziatore spaventoso delle contraddizioni insite nel modello di sviluppo che noi italiani inseguiamo e gli albanesi rincorrono (in modo anche sgangherato: pensa che hanno un monumento a George W. Bush!).
Una discarica enorme alla periferia di Tirana, ma vicinissima alle case, è per me il simbolo di tutto ciò e per questo la mostro nel film: l'Albania rischia di diventare la pattumiera d'Europa (ma anche in Italia qualche anno fa si parlava di costruire una dozzina di termovalorizzatori e che ci avrebbero portato in quella direzione!).
Ovviamente non parlo del popolo albanese, ho conosciuto giovani straordinari che lottano contro tutto ciò, e che mi ricordano molti giovani calabresi che ho incontrato, in prima linea contro la criminalità organizzata. Ma la città è contraddittoria: un centro con lucine e videowall ovunque, che luccica manco fosse Dallas, e una periferia che definire arretrata è poco.
Comunque, ognuno ha i suoi sogni: io ho voluto mostrare i due lati della situazione, ognuno si muova verso quello che preferisce. Poi ci sono molte Albanie diverse, il nord e il sud sono molto diversi tra loro e non si amano affatto (altra cosa in comune con l'Italia...).

La storia dovrebbe insegnare molto più di quanto non faccia.

Il punto che mi interessava sottolineare di più è che se rinunci alla tua storia, come han fatto loro dopo Hoxha, senza una rilettura critica del tuo passato rischi di diventare "merce". E questo è un pericolo che sento anche per noi, che non abbiamo mai fatto davvero i conti con il fascismo e la guerra.
L'Albania la conoscevo già, ma ho approfondito questi aspetti grazie all'amicizia con il mio aiuto regista albanese Indrit Metiku: ammetto però che tutte le ex-colonie italiane mi affascinano, studio molto questo pezzo di storia e spero di tornare presto a raccontarlo, in particolare con l'Africa orientale. I segni che abbiamo lasciato, come ci ricordano e ci vedono ora...

Ruolo importante nel tuo film hanno anche i cani.

Vero: ammetto che avrei fatto il film solo per mostrarli, quando ho scoperto questo ospedale di volontari che si dedica a salvare i cani... In generale si vedono pochissimi cani e gatti in giro, spesso vengo trattati brutalmente se non uccisi. È un'altra contraddizione, da un lato la violenza dall'altro questo luogo assurdo in cui li salvano: non c'è un vero capitolo su questo aspetto nel mio documentario, ma mostrare queste gabbie di vetro colorato dietro cui i cani sono rinchiusi mi serviva per mostrare una prigione "invisibile", diretto collegamento con le cabine in cui i call center fanno lavorare i propri impiegati.
Poi c'è la citazione finale di "Mondo Cane" di Jacopetti, che capisco possa spiazzare. La volontà è quella di ricordarci che viviamo tutti in un "mondo cane", anche se non vogliamo ricordarcelo.

06/06/2019, 15:32

Carlo Griseri