Note di regia di "Le Case che Eravamo"
Nel passato romano dagli anni ’40 in poi ma che poteva anche essere prima, le contraddizioni esplodevano e venivano contraddette come oggi ma in bianco e nero poco fulgido: sguardo curvo di un borghese che tira ciottoli al nulla in un anonimo parco, occhi sfacciati di una bambina sotto le tende di Via Cavour – mani su un volantino, un signorino che si sistema la giacchetta uscendo da un portale di plastica (esce, per entrare in un appuntamento – sempre sperato), una sposina che si nasconde dietro un fumetto – la fede al dito, composta anche nel nascondimento.
Non si dorme in privato.
Si vaga vigili in città incomprensibili, planimetrie che nun’ se capiscono – dicono – albe senzatetto che si ripetono. Abbiamo incontrato Gerry vagante tra biodiverse periferie, e due colti lucani emigrati come individui, non come massa, abbiamo incontrato vagabondi fluviali e fabbrica-strade di San Basilio e pistoleri della Magliana, quelli buoni.
Ciò non implica, ovviamente, che ciò che si vede sia conforme a ciò che si dice, o che una cosa debba realizzarsi, rendersi visibile nell'altra: l’archivio può essere anche disgiuntivo. In esso, le forme eterogenee del visibile e dell’enunciabile “s’insinuano l’una nell'altra come in una battaglia…”. Il cinema restituisce l’archivio in una forma au-dio-visiva in cui le relazioni possibili tra il dicibile e il visibile vengono sempre riconfigurate.
Arianna Lodeserto