Noye di regia di "Thanks!"
Thanks nasce come spettacolo teatrale e abbiamo deciso di trasformalo in film per raccontare anche cinematograficamente quel mondo marginale e poco esplorato dal cinema italiano, attraverso i modi di una commedia amara, cinica e lontana da ogni tentativo di lettura politicamente corretto della realtà. Attraverso le tormentate vicende di una famiglia sconclusionata e decisamente sopra le righe, che vive nella periferia povera e degradata di una qualunque città del nord Italia, cerco di dar voce a cinque personaggi vinti dalla vita, apparentemente in continuo conflitto l’uno con l’altro, ma, in realtà, carichi di ironia ed umanità. Una commedia feroce e maleducata, ma sincera e onesta. Una storia che, sempre in equilibrio tra volgarità e poesia, scava nelle profondità della società italiana, fino ad esplorarne, con divertimento, le sue zone più oscure e difficili.
La mia scrittura, se da un lato si ispira al lavoro di autori teatrali con Martin McDonagh e Tracy Letts, di sceneggiatori e ideatori di serial televisivi come Vince Gilligan, Paul Abbott e Nic Pizzolatto, dall'altro ha mutuato elementi importanti da grandi registi come Ken Loach e i fratelli Coen. Di tutti questi autori ho sempre amato la grande capacità di raccontare il mondo e il “presente” senza mai farsi imprigionare da facile retorica o da inutili moralismi.
Thanks, infatti, fotografa senza fronzoli un’umanità socialmente instabile, carica di nevrosi e debolezze, attraverso un occhio lucido, divertito e, soprattutto, innamorato dei personaggi che racconta.
La comune mancanza d’amore dei protagonisti porta i dialoghi all’eccesso e all'isteria evidenziando gli aspetti tragicomici di esistenze che commuovono e fanno ridere nello stesso istante. I loro tormenti emotivi amplificano il loro aspetto umano raccontando una realtà spinta all’assurdo che però attiene al nostro quotidiano. Uno stile “eccessivo” che, trasformandosi in provocatorio realismo, cerca un divertimento mai gratuito e fine a se stesso.
Nella desolata e dimenticata periferia della storia emergono ferite familiari lontane, drammi odierni, fatti di cronaca, solitudini incolmabili e felicità inesistenti. È la storia di esseri umani sconfitti, abbattuti, lasciati in un angolo dal mondo che prima li ha illusi e poi tragicamente derisi. È il controcanto degli “ultimi” e degli esclusi dal mondo del successo e del benessere. In un esistenzialismo da taverna dove ogni desiderio è fallimento.
Thanks è certamente una commedia nera. Scelgo questo termine, senza pretesa di troppo rigore, per indicare l'alleanza della visione comica con quella tragica.
Come autore, infatti, porto avanti da anni un lavoro di costante ricerca sulla mescolanza dei generi, con l'obbiettivo di fondere l'ironia alla tragicità, il divertimento al dramma, in una continua escursione fra la realtà e l'assurdo, fra il sublime e il banale. Come una corda sempre tesa fra il “cielo” e i bassifondi, in uno spalancarsi di abissi, dove ad ogni passo non si può che restare in bilico.
Mi interessa muovermi sul fragile confine dove, all'improvviso, tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare. L'istante nel quale i personaggi si mostrano completamente nudi e stupidità e genio, senno e follia, suonano la loro nota nello stesso istante, lasciandoci con un sorriso sul viso e una tomba nel cuore.
Sono convinto che Thanks sia un film “nervoso” ed estremamente veloce che segue sempre da vicino i suoi personaggi senza mai staccarsi dalle loro storie. Dialoghi serrati, ritmi sincopati e un linguaggio acre e disadorno, caratterizzato da una recitazione secca e immediata.
Attraverso l'agire dei protagonisti lentamente scopriamo il microcosmo degradato e anonimo che li circonda: un quartiere periferico e malfamato di un qualunque nord Italia fatto di cantieri aperti, case popolari fatiscenti, campi abusivi, murales, macchine abbandonate e bruciate, spaccio e prostituzione notturna. Pur partendo da una base realistica però, è per me fondamentale raccontare un mondo mai riconducibile ad una geografia italiana specifica. Anche dal punto di vista della recitazione, infatti, sento l'urgenza di non caratterizzare i personaggi attraverso cadenze dialettali o provenienze territoriali particolari perché ciò che mi interessa di più è creare una storia dal largo respiro che racconti luoghi e personaggi assolutamente riconoscibili nell'immaginario collettivo, ma, al tempo spesso, non sempre e totalmente decifrabili. In questo senso il mio lavoro ha la grande ambizione di dar vita ad una favola metropolitana contemporaneamente reale e grottesca che potrebbe svolgersi ovunque in quanto la sua forza principale risiede nella specificità dei personaggi, nelle loro relazioni, nei sogni di riscatto sociale che li animano, ma, soprattutto, nell'universalità dei loro sentimenti e del loro dolore.
Rispetto all'appartamento del protagonista, Fil, dove si svolge buona parta della vicenda, è mia intenzione restituire allo spettatore la stessa sensazione di distacco dal mondo e di claustrofobia che lui stesso prova per quasi tutta la storia. Il suo appartamento infatti, collocato al terzo piano di un condominio, è caratterizzato da muri leggermente colorati e scrostati, mobili usati, spazi angusti e tapparelle spesso abbassate. Ciò nonostante, così come per gli esterni, sento la necessità di ricostruire e ricercare un mondo povero, ma esteticamente luminoso e "bello" nel suo degrado. Oltre la libreria della sala, con i suoi volumi ingialliti all'interno, un passaggio nel muro ci conduce alla coltivazione illegale di marijuana sopra la quale il lento ondeggiare delle ventole e le numerose lampade led, conferiscono all'ambiente un'atmosfera lunare e quasi onirica. Questi sono gli spazi nei quali si muovono i nostri protagonisti, vittime e carnefici della lotta senza tempo per l'amore. Genitori disperati e figli senza futuro, combattono nell'istante che gli è concesso per la propria sopravvivenza. Provando ad accorciare l'incolmabile distanza che li separa, lasciando alla solitudine le loro inesprimibili diversità.
Gabriele Di Luca