Note di regia di "Il Vestito"
Non è un cortometraggio di denuncia sociale. E non è nemmeno la lacrimevole favola del migrante buono che fa fortuna. È solo una storia di sentimenti: una breve vicenda che mira a emozionare e a imprimere nello spettatore un senso di sorpresa. Lo scopo è dimostrare che i turbamenti interiori vanno al di là di qualsiasi diversità di pelle, di etnia e di orientamento sessuale. E proprio perché la storia ha valore universale, non ho inserito nomi di città né riferimenti precisi.
La trama è lineare. Prima, la presentazione del personaggio di Amed: un ragazzo immigrato che a malapena parla italiano e lavora in una lavanderia. Poi, l’incontro con Massimo: Amed vede un uomo con un abito da sposo che vomita vicino a un’auto piena di fiocchi bianchi. Il ragazzo segue lo sconosciuto, gli ruba il vestito, ma quando viene scoperto rivela che si deve sposare e si salva. Infine, la missione punitiva che Massimo affida ad Amed: dopo un lungo viaggio, il ragazzo dovrà andare in un bar, dare uno schiaffo a un uomo di nome Marco e consegnare una valigetta con un messaggio. Il
contenuto chiarirà la storia di Massimo. Eseguito l’incarico, Amed avrà la sua ricompensa. Il focus della narrazione è principalmente su Amed (Danilo Arena). Il personaggio di Massimo (Christian Iansante), al contrario, è un antagonista che resta volutamente nell’ombra e nel mistero. All’inizio non vediamo nemmeno il suo viso. Quando Amed viene scoperto, Massimo ha un aspetto cadaverico, scomposto, orribile. Per il resto del film è connotato negativamente: sembra un tossico che passa le sue giornate a vomitare in una casa disordinata e piena di siringhe. La missione che affida ad Amed sembra non avere alcun senso e il ragazzo viene addirittura scambiato per un terrorista e malmenato. Solo con l’apertura della valigetta scopriamo chi è veramente Massimo: una principessa sedotta e abbandonata. Un uomo solo, malato, innamorato di un ipocrita. Uno sconfitto che punisce il suo amato con la verità.
Ho voluto giocare sull’effetto sorpresa legato all’omosessualità, senza però trasformare la diversità in un elemento patetico. Prima del finale, in effetti, niente lascia intendere che Massimo sia gay. L’idea principale del corto nasce da un preconcetto: quando vediamo una acchina da cerimonia, la prima persona che ci viene in mente è la sposa. Non pensiamo mai che quella sposa possa essere un uomo. Lo stile di regia è realistico, ma non invadente. La macchina a spalla non è estremizzata: è a totale servizio della storia.
Maurizio Ravallese