NON ODIARE - Un'analisi del film
Esordio alla regia di Mauro Mancini,
Non odiare è stato presentato alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia all’interno della Settimana Internazionale della Critica dove ha ricevuto diversi premi prestigiosi, quali Miglior Interpretazione Maschile ad Alessandro Gassmann, Miglior Attore Esordiente a Luca Zunic e “Sorriso diverso Venezia 2020” per il miglior film italiano.
Il film si presenta con una forte idea innovativa: dalla colonna sonora alla scelta dei personaggi, fino a quella della narrazione, il desiderio è quello di stupire lo spettatore con un tratto incisivo ma allo stesso tempo delicato.
La storia che racconta Mancini è già molto intensa: nella prima sequenza, forse una delle più brutali, vediamo il protagonista ancora bambino sulle rive di un lago intento con il padre a uccidere dei gattini. Il dettaglio più importante della scena però non è messo a fuoco, non è inquadrato in primo piano, ma viene mostrato alla camera quasi per caso: il braccio del padre che riporta ancora i segni sbiaditi del tatuaggio identificativo dei campi di concentramento.
Così viene svelato allo spettatore il primo degli indizi di questa storia, che pian piano verranno seminati all’interno della narrazione, come se fosse un film giallo.
Alessandro Gassmann interpreta Simone, un chirurgo che assiste casualmente ad un incidente stradale: quando si appresta a soccorrere l’uomo ferito, si accorge della svastica che questo ha tatuata sul corpo. Il tatuaggio lo paralizza e lo induce a smettere di aiutarlo.
Quando parlerà con la polizia che gli chiede se ha visto chi ha commesso l’incidente, dirà «mi dispiace ma non ce l’ho fatta» con uno sguardo malinconico di chi nasconde una scomoda verità.
Quello che non è riuscito a fare, infatti, è continuare le sue operazioni di salvataggio a causa dell’odio incondizionato che immediatamente ha provato verso quello sconosciuto proprio per quel tatuaggio e l’ideale che esso trasmette.
Soltanto quando verrà svelato il cognome del padre avverrà la completa indentificazione della narrazione: Segre infatti rimanda direttamente alla cultura ebraica e alla sua storia.
Certamente non è il classico film sulla Shoah, ma segue le vicende della nostra modernità: si racconta di un razzismo moderno, fatto di gruppi neonazisti che inneggiano alla sovranità della razza bianca, di soprusi ai più deboli, di cameratismo e giochi di potere.
Il regista infatti, insieme allo sceneggiatore Davide Lisino, trae ispirazione da un fatto di cronaca avvenuto nel 2010 in Germania, quando un chirurgo ebreo si rifiutò di operare un uomo che aveva un tatutaggio nazista.
Ci viene presentata la famiglia del morto attraverso il funerale organizzato dai suoi compagni di lotta politica: una massa di persone che indossa bomber neri e anfibi, teste rasate che omaggiano la salma con il classico saluto fascista.
Parallelamente il regista aggiunge dettagli alla storia della famiglia Segre: ci porta a conoscere la casa del padre ormai defunto, ci mostra le ossessive collezioni di oggetti accumulate nella sua casa; la camera si avvicina lentamente su oggetti tipici della sua cutura come la Menorah, e ci presenta il feroce cane abbandonato che sta a simboleggiare il carattere ostile del suo proprietario.
La storia delle due famiglie si intreccia perché Gassmann, spinto dal senso di colpa, inizierà ad essere ossessionato da quella famiglia che in qualche modo ha contribuito a spezzare.
Il rimpianto di non aver salvato il padre lo spingerà ad assumere la figlia Marika come colf.
Nel corso della narrazione il tema del nazionalismo e del razzismo non sono mai affrontati direttamente dai personaggi del film, ma aleggiano nelle stanze e nei luoghi che questi percorrono con dialoghi che rimandano a luoghi comuni e frasi fatte contro gli immigrati, spesso pronunciate da Marcello, il figlio che segue le orme politiche del padre defunto e che non nasconde gesti razzisti e maschilisti.
Soltanto verso il termine del film Simone ammetterà al figlio più piccolo del fascista di essere di origini ebree, con una naturalezza e semplicità degna appunto del bambino con cui si confronta. Simone dice: «Ti sembro diverso dagli altri?» e Paolo risponde con innocenza «No».
Il regista quasi ossessivamente riprende gli elementi d’arredo della casa del protagonista, come ha fatto con quella del padre, dove si svolge la maggior parte della narrazione. Una casa calda e accogliente, ricca di oggetti di design ma anche minimalista, un luogo in cui Gassmann ama camminare a piedi scalzi e il regista farci sentire lo scricchiolio del parquet.
Altro elemento interessante del film infatti sono i suoni: la colonna sonora è stata realizzata da
Pivio e Aldo De Scalzi. La scelta stilistica qui è molto diretta: composizioni che ricordano rumori che riecheggiano nelle stanze, suoni delicati che accompagnano i grandi silenzi riflessivi del protagonista, ma quando la tensione è più evidente i suoni si fanno prepotenti. Così il regista decide di non affrontare direttamente il tema dell’antirazzismo e dell’antisemitismo, ma sceglie di far parlare le sue immagini.
Il film ha una struttura circolare e si chiude con la prima sequenza con cui è iniziato: i Segre vicino al lago.
Giorgia Lodato18/10/2020, 09:20