Note di regia de "La Versione di Jean"
La baraccopoli illegale di Lungo Stura Lazio a Torino era un luogo speciale della nostra città, un rettangolo di terra lungo il corso di un fiume, chiuso da due ponti e da una barriera di siepi e immondizia sul quarto lato. La sua straordinarietà risiedeva nel contrasto tra la sua ingombrante concretezza e il non esistere ufficialmente. Lungo Stura Lazio ha ospitato migliaia di persone povere per più di 15 anni. Oggi, dopo il massivo sgombero del 2015, di quel luogo non rimane più nulla. Lo spazio della baraccopoli, dopo essere stato completamente distrutto da decine di ruspe e escavatori, è rimasto esattamente come alla fine del 2015: una distesa enorme di macerie mai rimosse, perché i fondi del progetto “La città possibile” sono finiti da tempo. La natura si è riappropriata del campo ed una coltre d’erba, di arbusti e una rigogliosa vegetazione ricopre il suolo e ha inglobato la maggior parte dei detriti. Tra l’erba spuntano gli oggetti più diversi, il braccio di una bambola, la ruota di una bicicletta, una televisione, materassi, coperte, pentole e piatti. Si sono formate delle colline di macerie su quelle che un tempo furono le baracche di migliaia di abitanti ed ora assomiglia ad uno strano paesaggio, selva d’estate e steppa d’inverno.
C’è sempre una discrepanza forte tra la percezione che il mondo esterno ha di un campo rom, che è basata su pregiudizi e informazioni riferite dai mezzi di comunicazione e la vita reale all’interno del campo che non è possibile percepire se non entrando e conoscendo quella realtà. Le informazioni che vengono proposte ai cittadini o ad un pubblico non fanno che confermare tutti gli stereotipi sul campo rom e i suoi abitanti attraverso l’uso di immagini già note, in cui lo spettatore riconosce l’informazione che ha già. Sono le immagini di un binocolo, che non si addentra ma semplicemente ingrandisce dal di fuori e mostra sempre le stesse immagini. Questo film parla principalmente attraverso immagini girate dagli abitanti del campo. Un punto di vista, per una volta, che viene dall'interno, in contrapposizione a qualsiasi altro sguardo che strutturalmente distorce le immagini e nega le vite di persone in carne e ossa, di soggetti. È il racconto di un tempo che precede i giorni della distruzione totale del Platz. È la storia della nascita di una chiesa all’interno del campo, di uno dei battesimi qui celebrati, dello sgombero e di cosa rimane oggi, di una vita, di tante vite che hanno abitato quello spazio per circa 15 anni e che, seguendo le tappe forzate del progetto “a favore della popolazione rom”, in pochi mesi è stato completamente raso al suolo diventando un luogo desertico e straniante. In quel momento centinaia di famiglie, in fuga dallo sgombero forzato, hanno cercato rifugio nelle varie baraccopoli in via Germagnano a soli 3 chilometri in linea d’aria da Lungo Stura Lazio. Il progetto si è concluso, le famiglie apparentemente sono scomparse da Lungo Stura, il grande spazio pieno di macerie è stato recintato con chilometri di jersey ed è ancora nello stesso identico stato dopo 4 anni.
La versione di Jean ci permette di sentire le voci e ci mostra gli sguardi di chi, da decenni, non è mai stato preso in considerazione, ma solamente minacciato, gestito e controllato come un oggetto. Persone assimilate costantemente ad un “problema”, che creano soltanto grane per i politici di turno e per l’opinione pubblica, da segregare in campi “legali” creati dalle stesse istituzioni o in insediamenti illegali, che devono restare ai margini, invisibili, perché se queste persone decidessero mai di mostrarsi o ancora peggio di resistere a queste pratiche di esclusione e segregazione spaziale e abitativa, di raccontare la propria versione delle cose, la repressione nei loro confronti sarebbe immediata, così come la loro cacciata. Jean è la guida di questo film, in tutti sensi. Jean ha vissuto all’interno del campo e ne conosce le storie e gli angoli più nascosti. È l’autore di molte impavide riprese fatte nei giorni dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio, immagini molto diverse da quelle che è stato possibile vedere fino ad ora. In questo racconto si intrecciano in maniera non cronologica gli attimi che hanno scandito quel tempo, si mescolano immagini di archivio a immagini contemporanee, riprese fatte col cellulare insieme a quelle professionali. È importante per noi dare voce alla versione di Jean così lucida e disincantata proprio perché così diversa da quelle ufficiali. E questa storia, che abbiamo vissuto così da vicino, è una storia che continua a ripetersi. Il nostro film è fatto dalle storie e dagli sguardi di chi non ha mai avuto nessun luogo dove mostrarsi ed essere visto. Perché si possa guardare attraverso i loro occhi la violenza, la sofferenza, il dolore.
E la lotta, la resistenza, il non piegarsi di fronte a una sproporzione strutturale di forze e discorsi di dominio. Al di là di ciò che è già accaduto ci preme fare una riflessione su questo spazio “sfollato”, lasciato vuoto e da presentare come “pulito” quindi senza corpi, senza persone, senza le vite. Uno spazio stracolmo di macerie ma da cui è stata cancellata la presenza di migliaia di persone che nei loro percorsi di fatica quotidiana continuano a trovare modi e forme per vivere e sopravvivere. Di fatto, a Torino, sotto il nome di progetto “sociale” è stato possibile compiere un’operazione molto prossima ad una forma di pulizia “etnica”. Ci preme ricordare che il campo non è una forma di vita. Il campo, attraverso la sua stessa esistenza incarna un modo preciso di interpretare una data realtà. Qualsiasi campo etichetta chi ci vive come “permanentemente temporaneo”; il campo esclude, discrimina sulla base del colore, dell’etnia e della classe. In questa logica di azione militare e di dominio vogliamo allargare la riflessione a tutti gli altri campi che nascono, proliferano e vengono distrutti dalla “forza pubblica” intorno a noi. Qui, ovunque, continuano a vivere “gli indesiderabili” dell’umanità. Senza nessuno sguardo al futuro, né coerenza né senso di umanità, la politica del vuoto si alimenta del nulla che lascia dietro di sé.
Manuela Cencetti, Stella Iannitto, Jean Diaconescu