Note di regia di "Ritorno in Apnea"
Me ne sono andata da Bergamo quando avevo diciotto anni, passando da Bologna, Madrid e ormai da nove anni Roma. La mia famiglia invece è sempre rimasta a Bergamo, in provincia.
La mia è una zona di fabbriche, fabbriche e ville è il paesaggio che si incontra per lunghi tratti d’autostrada. Un paesaggio di cui non ho mai sentito la mancanza, fino al 18 marzo del 2020, la notte in cui un ragazzo napoletano ha diffuso una foto destinata a diventare il simbolo del Coronavirus nel mondo. Decine di mezzi militari che, nel silenzio delle vie deserte per il lockdown, scortavano le vittime del virus fuori Bergamo, perché in tutta la provincia non si sapeva letteralmente dove cremarle.
Quella notte ho pianto e forse non mi sono mai sentita così legata alla mia terra.
Erano giorni che raccoglievo racconti di amici e parenti terrorizzati, anche quelli di solito più freddi e razionali. Mio fratello era stato contagiato e ricoverato in ospedale, e a me sembrava di impazzire stando lontana. Così, tempo di rispolverare la telecamera usata per l’ultima volta nella Striscia di Gaza, ho deciso di partire. Sono specializzata in aree di crisi, ma mai avrei immaginato che casa mia un giorno lo sarebbe diventata.
Tornare è stato stranissimo, la stazione Termini sembrava un checkpoint, ero spaventata, venendo da Roma non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Ma i bergamaschi erano più terrorizzati di me, nemmeno una mia cara amica ha accettato di incontrarmi nelle prime settimane. La vita si era spostata su Skype e le strade di solito trafficatissime erano desolate e inquietanti. Non mi era mai capito di faticare a convincere le persone a uscire di casa per farsi intervistare. Per settimane non ho visto la mia famiglia e il mio ragazzo.
Poi ho incontrato Alberto Valtellina, anche lui era sigillato in casa e lentamente si è unito al mio progetto. Ed è un po’ colpa o merito suo se a un certo punto qualcosa è cambiato, se da giornalista che rispetta la giusta distanza sono entrata di più nel film, passo dopo passo, arrivando a coinvolgere persone a me care come mio fratello.
Per tre mesi ho percorso su è giù la bergamasca, in particolare la Valseriana, epicentro del contagio, cercando prima di tutto di capire quello che è successo: in due mesi sono morte seimila persone, l’equivalente di due piccoli paesi rasi al suolo. Ho raccolto le testimonianze di chi è stato in prima linea, chi nelle retrovie, chi ha perso parenti o ha temuto di morire. E ho incontrato Emanuele - che per la prima volta ha fatto entrare una giornalista in casa sua - il ragazzo che ha scattato la foto da cui il mio viaggio è partito.
Anna Maria Selini